Innanzitutto, sgombrare il campo dagli equivoci. “Fondo di garanzia” e (ex) “articolo 28” non sono gli unici strumenti previsti dalla legge italiana a sostegno della produzione cinematografica. A dire il vero, in Italia come in gran parte d’Europa, convivono, a partire dal 1965 (dalla cosiddetta “legge Corona”, varata dal primo governo di centrosinistra) due diverse tipologie di intervento. C’è un sostegno automatico che lo Stato accorda a tutti i film di produzione nazionale e che consiste nel corrispondere a ciascun produttore il 13% dell’incasso lordo di ciascun film (per cui se Vacanze di Natale 2000, poniamo il caso, ha incassato 20 miliardi di lire, lo Stato regalerà al produttore altri due miliardi 600 milioni).
Non è automatica, ma neppure selettiva, un’altra forma di intervento dello Stato: il finanziamento a tasso agevolato riservato ai film di “produzione nazionale” vale a dire a tutti (o quasi) i film che abbiano il requisito della nazionalità e alcuni requisiti minimi di spettacolarità. Questo per dire che quando ad esempio il presidente dell’Anica, Fulvio Lucisano, tuona contro i finanziamenti riservati ai “film di interesse culturale nazionale” non propone l’abolizione dei finanziamenti pubblici (anzi!) ma lo “spostamento” dei fondi da alcuni film – quelli appunto riconosciuti di interesse culturale nazionale – a tutti i film di produzione nazionale.
Ma quando e perché un film può dirsi di “interesse culturale nazionale” e conseguentemente accedere ai benefici del “Fondo di garanzia”?
Lo stabilisce la legge n. 153 del 1 marzo ’94 (conversione del precedente decreto legge n. 26 del 24 gennaio ’94) che ha, sul modello francese, profondamente riformato il sistema di accesso al credito cinematografico.
Andiamo con ordine. Se un produttore è alle prese con un film che giudica genericamente appetibile dal mercato, ma non ha la forza economica di assumersi per intero il rischio economico, può sperare di essere affiancato (e in parte sostituito) dallo Stato nell’assunzione di questo rischio. A tal fine il produttore sottopone la sceneggiatura del film che intende realizzare – insieme con un’ipotesi di cast tecnico e artistico, un preventivo e un piano di lavorazione – al giudizio di una Commissione appositamente costituita presso il Ministero dei Beni Culturali. La Commissione può riconoscere al film – per qualità e composizione tecnico artistica – un particolare “merito”, tale da consentirgli di accedere a un prestito che può arrivare a coprire (nel migliore dei casi per il produttore) fino al 90% dei costi di produzione del film. Questo prestito va in parte (per il 30%) restituito attraverso l’accensione di garanzie reali e contratti di prevendita. Per il rimanente 70% è invece garantito dallo Stato medesimo attraverso per l’appunto il “Fondo di garanzia”. Accade così che, fin dalla prima lira ricavata, produttore e Stato rientrino concorrenzialmente del proprio investimento. Dapprima si estingue quella parte di credito non assistita dal Fondo di Garanzia (il 30% del finanziamento), successivamente la quota assistita (il 70%). Lo Stato dunque, almeno in apparenza, anticipa al produttore i ricavi futuri del film salvaguardando con certezza soltanto una parte del proprio investimento. Se pertanto, come avviene molto spesso, il film non ha ricavi tali da poter restituire allo Stato anche il 70% del finanziamento assistito dal Fondo di garanzia, quello che doveva essere un prestito diventa di fatto un contributo a fondo perduto.
È la logica che presiedeva ai finanziamenti del fondo speciale previsto dal chiacchieratissimo articolo 28 della legge 1213 del ’65, estesa a quei film il cui budget può raggiungere gli otto miliardi e raramente è inferiore ai 2 miliardi e mezzo (cioè a buona parte dei film considerati di medio budget).
Quanto all’articolo 28, nonostante le molte cose scritte e dette in questi anni, è tutt’altro che abrogato. Esso è stato in realtà soltanto riformato dall’articolo 8 della citata legge 153 del ’94. Esisteva ed esiste tuttora un fondo speciale destinato a supportare finanziariamente un numero limitato di film (non più di 20 all’anno ma di solito sono molto meno) cui la su citata Commissione abbia riconosciuto particolari caratteristiche dal punto di vista artistico e culturale. Film più sperimentali, meno garantiti commercialmente, realizzati da autori all’opera prima o seconda, meglio se diplomati alla Scuola Nazionale di Cinema. Film che prevedano la partecipazione ai costi, in una certa misura, degli autori, degli attori, di alcuni tecnici. Film che privilegino, in breve, il fattore lavoro al fattore capitale.
La legge del ’94 si è limitata a elaborare nuovi criteri per l’assegnazione dei finanziamenti, individuando ad esempio un tetto massimo al costo dei film – oggi di 2 miliardi e mezzo – e dunque limitandone l’applicazione ai film low budget. Anche nel caso dei film articolo 28 (o articolo 8), il finanziamento statale può arrivare a coprire fino al 90% del costo del film (il vecchio articolo 28 finanziava invece fino al 30% del costo). Non solo: di questo 90% solo il 10% deve essere in ogni caso restituito dal produttore allo Stato con i ricavi del film. Il restante 90% è assistito dal Fondo di garanzia con le modalità descritte sopra. In pratica anche nel nuovo articolo 28 se il film non riesce con i ricavi (tutti i ricavi, non solo quelli del box office cinematografico) a ripagare il prestito agevolato dello Stato, il finanziamento si trasforma in un contributo a fondo perduto.
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