“Sono i narcisisti quelli che ce la fanno” – dice Signe. “Perché lavori ancora in un bar?” le chiedono. “Perché io non lo sono” – risponde lei.
In una sola frase – ripetuta come un disco rotto anche nel corso dell’ultima presidenza americana, ma tristemente tornata in auge – si riassume la storia attorno a cui ruota l’intero film: la malattia del narcisismo più estremo, intesa in termini individuali, relazionali e sociali, è il centro del geniale, ironico e terrificante Sick of myself – an unromantic comedy, (letteralmente Malato di me stesso – un’anti-storia d’amore) scritto e diretto da Kristoffer Borgli, con Kristine Kujath Thorp e Eirik Sæther.
Dopo l’anteprima mondiale nella sezione ‘Un Certain Regard’ all’ultimo festival di Cannes, Sick of myself, completamente girato in 35 mm, propone al pubblico italiano una commedia sentimentale potente e assolutamente originale, con un concept elegante ed estremo allo stesso tempo. Un film atipico, che ha già suscitato molto interesse tra la critica e gli spettatori. Magistrale l’interpretazione della protagonista, Kristine Kujath Thorp – già nota nelle serie TV Fanny (2018), Ninja Baby (2021), The North Sea (2021) The Promised Land (2023) – nel ruolo di Signe, anonima cameriera di un bar, che per attirare l’attenzione su di sé arriva a utilizzare strumenti pericolosissimi per la sua salute (che qui non sveliamo).
“Sono molto fortunato che Kristine abbia accettato di farlo” – ha raccontato il regista. “È un ruolo molto forte e psicologicamente complesso, che richiedeva anche saper gestire un ritmo comico e un coinvolgimento fisico non indifferente. Per prepararci abbiamo esplorato il personaggio: come impersonare qualcuno che non mostra mai il suo vero ‘io’? Oltre a questo c’erano tutti gli elementi riguardanti l’aspetto fisico, come il suo corpo inizia a deformarsi, in modo sia comico che orrorifico. È stato divertente trovarsi al Festival di Cannes insieme a David Cronenberg, sono sicuro che il mio interesse nelle protesi e nel body horror sia da imputare all’influenza del suo cinema”.
Sick of myself, come recita il sottotitolo, è infatti un’anti-storia d’amore a tutti gli effetti, ma anche un illuminante e inquietante ritratto della società contemporanea, che riesce a tenere magicamente insieme realismo, satira, commedia e tragedia.
Signe e Thomas sono belli, giovani e benestanti, amano il design e le cene di lusso. Ma vivono una relazione malsana, in continua competizione: non si possono sopportare per più di cinque minuti. Il tutto va incrinandosi ancor di più nel momento in cui Thomas inizia ad avere successo come artista contemporaneo. “Non è il miglior fidanzato del mondo, è diventato ossessionato dalla sua carriera”. Così ne parla Signe, alla quale la cosa non piace per niente: anche lei vuole che il mondo si accorga di lei, probabilmente l’ha sempre voluto. E così inizia a lanciarsi in un disperato tentativo di farsi notare, a tutti i costi. Ma tutti davvero, rendendosi letteralmente e gravemente malata.
La domanda che emerge dal film è angosciante: quanto ci si può spingere in là per destare attenzione negli altri? E per cosa, esattamente? Per “un tot di messaggi e qualche visita in ospedale?” O magari per un articolo che neanche diventa virale perché un “fottuto nerd che ha sparato a tutta la sua famiglia” ti ruba la scena e la prima pagina?. Il narcisismo e la cinica spietatezza dei social media, del mondo dell’arte e della moda e della società contemporanea tutta, con le relazioni malate che riesce a generare, ci portano ad un’unica risposta, almeno secondo Borgli: non c’è un limite a tutto questo, nemmeno quando le conseguenze di questa follia superano l’immaginabile.
La storia, che riesce a toccare lo spettatore con scene davvero angoscianti, è raccontata in un crescendo di sapiente ironia nordica, a tratti surreale. Un’ironia che non risparmia niente e nessuno – compreso il gruppo di autoascolto olistico – e attraversa tutto l’arco narrativo, per culminare nella scena delle riprese per l’‘inclusive fashion’ girata tra i corpi intrecciati delle magnifiche sculture del Museo Vigeland. Mentre sullo sfondo riecheggia un’unica e fondamentale domanda, che Signe rivolge a Thomas dal suo letto di ospedale: “La gente chiede di me?”.
“Mi piacciono le dolci melodie che raccontano cose terrificanti” – ha spiegato il regista, “Volevo realizzare una storia spiacevole nel modo più bello possibile, volevo girarlo durante le meravigliose estati che abbiamo qui ad Oslo. Volevo che sembrasse il più senza tempo possibile, per bilanciare la storia inconfondibilmente contemporanea con l’immortalità di alcuni temi come il narcisismo e l’invidia. Abbiamo girato in 35 mm, c’è tantissima musica classica nel film e il tutto si è fortunatamente tradotto in un bellissimo ritratto di cose terribili”.
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