Si deve a una donna, Doris Kearns Goodwin, e al suo libro “Team of Rivals: the Political Genius of Abraham Lincoln”, il monumentale film di Steven Spielberg, che ha ricevuto 12 candidature all’Oscar e sta per uscire in Italia con la Fox, dal 24 gennaio. L’idea del grandioso progetto nasce infatti proprio dalla lettura di questo libro, nell’ormai lontano 2005. Ma ci sono volute varie stesure per arrivare alla splendida sceneggiatura definitiva, affidata a Tony Kushner (drammaturgo e autore anche di Munich, sempre con Spielberg). Kushner ricostruisce con un fiume di parole il macchinoso e tutt’altro che limpido processo politico che ha portato, in piena guerra civile, alla ratifica del 13° emendamento, che di fatto aboliva la schiavitù affermando la piena uguaglianza degli uomini di fronte alla legge (anche se non ancora per natura).
Il testo fu approvato dalla Camera dei Rappresentanti nel 1865 con 119 voti a favore e 56 contrari – una maggioranza di appena 2 voti – non senza feroci opposizioni da parte dei Democratici (gli schieramenti erano allora rovesciati rispetto al presente) e con l’uso di ogni mezzo, anche illecito, da parte dell’entourage del sedicesimo presidente degli Stati Uniti, convinto che “se lo schiavismo non è sbagliato, allora nulla lo è”. Di Abraham Lincoln, anche grazie alla straordinaria interpretazione di Daniel Day Lewis (doppiato da Pierfrancesco Favino), vediamo luci e ombre. Il suo parlare per aneddoti, spesso verboso e noioso, l’apparente freddezza, l’affetto per il figlio più piccolo e il timore che il maggiore possa arruolarsi. Il difficile rapporto con la moglie Mary, una donna prostrata dalla morte di un terzo figlio ancora piccolo di cui incolpava il marito e da cui era incapace di rialzarsi, tanto che Abraham aveva pensato di rinchiuderla in manicomio. “Ci siamo concentrati sugli ultimi quattro mesi di vita di Lincoln – spiega Spielberg – perché ciò che ha realizzato in quel breve periodo è stato grandioso, tuttavia volevamo mostrare che anche lui era un uomo. Era uno statista e un leader militare, ma anche un padre e un marito angosciato, fortemente incline all’introspezione”.
Film quasi tutto giocato in interni – e mai la Casa Bianca è stata così buia e angusta – Lincoln si apre con sanguinose immagini di battaglia che ci immergono nel contesto della lotta tra Stati del Nord abolizionisti e Stati del Sud schiavisti, che vedevano la loro stessa sopravvivenza minacciata dalla liberazione dei neri. Per Sally Field, l’attrice due volte premio Oscar (Norma Rae e Le stagioni del cuore) qui alla terza nomination per la sua interpretazione della macerata Mary Lincoln, quella era la classica situazione “in cui due tesi e due partiti si contrappongono ed è terribilmente difficile dare le ragioni e i torti. La politica è anche arte del compromesso, non ci vedo niente di male, l’importante è governare con giustizia e guardare al progresso”.
Altro che compromesso. Trame politiche, voti di scambio e offerte di prebende, una falsa dichiarazione del presidente al Congresso nell’ora cruciale, si mescolano ai giustificati timori di prolungare inutilmente la guerra e agli slanci ideali, come quelli incarnati dal personaggio di Thaddeus Stevens (Tommy Lee Jones), che nel suo impegno per il 13° emendamento mise qualcosa di molto personale. Tutto questo si intreccia in un teatro da camera dove è in gioco però una posta molto alta, la dignità umana dei neri, una dignità che ancora un secolo dopo e oltre dovranno continuare a rivendicare e affermare lasciando molte vittime sul percorso. Tra cui lo stesso Lincoln, che sarà ucciso poche settimane dopo aver portato a termine la sua impresa mentre era a teatro con la moglie (ma il film lascia l’omicidio fuori campo con una azzeccata scelta di regia).
L’oggi, con un afroamericano alla Casa Bianca, è figlio di quelle convulse giornate. “Oggi non ci sarebbe Obama, ma forse non ci sarebbero neppure gli Stati Uniti d’America – riflette Sally Field – le ramificazioni di quelle decisioni attraversano la storia del nostro paese per intero”. E non teme che il film, pur così puntuale nel mostrare le aspre complessità della politica, parli poco al pubblico europeo, dando per scontate tante circostanze, fatti e nomi? “Penso che in ogni paese sia valido il discorso che riguarda il progresso dell’umanità, la democrazia con le sue trappole, la necessità che gli esseri umani hanno di darsi un governo e il diritto di sceglierselo. Anche oggi i governi corrono il rischio di chiudersi su se stessi, l’economia va male e ci sentiamo minacciati nella vita quotidiana, la democrazia resta l’unica alternativa alla tirannia”, dice l’attrice, che per questo ruolo ha cercato un’identificazione totale, anche fisica, ingrassando di 12 chili. Nell’America che da sempre si autoproclama il paese della democrazia, le discriminazioni restano comunque all’ordine del giorno. Per esempio verso le donne, che, dice ancora Sally Field, “a Hollywood hanno sempre trovato meno spazio degli uomini nella scelta delle storie da mostrare”. Ma una donna, Kathryn Bigelow, con Zero Dark Thirty, ha raccontato un’altra faccia della medaglia, la cattura di Osama bin Laden, torture comprese. “La schiavitù o altra forma di costrizione personale non potranno essere ammesse negli Stati Uniti, o in alcun luogo soggetto alla loro giurisdizione, se non come punizione di un reato per il quale l’imputato sia stato dichiarato colpevole con la dovuta procedura”, recita il 13° emendamento. E occorre ancora ricordarlo.
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