BERLINO – Una giuria dove gli uomini sono in minoranza (tre a quattro) non capita spesso. E quando una giornalista lo fa notare, nella sala dell’Hotel Hyatt, zeppa di cronisti e fotografi per la prima conferenza stampa ufficiale della 63° Berlinale, ecco gli applausi e i sorrisi delle giurate, ma anche di Tim Robbins, Wong Kar Wai e del regista tedesco Andreas Dresen, la “minoranza” appunto. Del resto le domande sono quasi tutte per Shirin Neshat, la regista, fotografa e artista iraniana autrice di Donne senza uomini, Leone d’argento a Venezia, da sempre impegnata nella messa a fuoco dell’identità femminile nei paesi islamici (celebri le sue foto di donne con il corpo ‘velato’ di calligrafia persiana). “Sono una donna e un’artista e dunque sono attratta dalle opere d’arte di altre donne, infatti il mio prossimo film sarà il ritratto di un’artista egiziana”, spiega Shirin, che non può mettere piede in Iran. Di recente ha trascorso molti mesi al Cairo per questo nuovo progetto e racconta che l’Egitto sta vivendo qualcosa che l’Iran ha vissuto in passato, una grande trasformazione e un clima artistico molto forte legato a un momento particolare della sua storia, duro ma anche entusiasmante. “Perché questi artisti vedono la storia svolgersi davanti ai loro occhi e le rivoluzioni portano sempre delle buone storie da raccontare”.
Uno dei film più attesi di questa Berlinale è Closed Curtain, realizzato in clandestinità da Jafar Panahi e Kamboziya Partovi e selezionato in concorso. E’ la storia, chiaramente metaforica, di un regista a cui non è permesso lavorare e che per giunta è ricercato dalla polizia perché possiede un cane, animale bandito dalla legge islamica in quanto impuro. L’uomo, che si è rasato il cranio, si nasconde in una villa sulle rive del Mar Caspio, un rifugio-prigione che condivide con una giovane donna anche lei in fuga da qualcosa. “La comunità iraniana dentro e fuori dal paese è ansiosa di conoscere questo film e molto interessata per questo al Festival di Berlino”, dice ancora Shirin Neshat. E aggiunge: “E’ stato coraggioso girare questo film ed è stato coraggioso metterlo in concorso”. Un Orso annunciato, dunque, dopo quello recente per un altro film iraniano La separazione? No, assicura l’artista: “la giuria guarderà Closed Curtain come tutti gli altri film, come un’opera d’arte e non per i suoi meriti politici”.
E tuttavia Panahi, oltre ad essere un grande autore, è al centro di uno dei più clamorosi casi di censura e persecuzione contro un artista da parte di un governo. Nel 2010 è arrestato per aver partecipato a una manifestazione contro il regime, incarcerato, condannato a sei anni di reclusione, trasferito agli arresti domiciliari con la proibizione di scrivere e dirigere film, viaggiare all’estero, persino rilasciare interviste. Il mondo del cinema ha protestato, i principali festival mondiali, da Cannes a Venezia a Berlino, si sono mobilitati in suo favore, invitandolo comunque in giuria e lasciando una sedia vuota per lui. Ma la sua storia è solo la punta dell’iceberg, come spiega ancora l’artista iraniana. “Anch’io appartengo a una comunità di donne che hanno tante storie da raccontare, ma che assai spesso non sono state messe in grado di poterlo fare o, peggio, sono state ostacolate. Io stessa non posso tornare nel mio paese e devo esprimermi per simboli e metafore, girando il mondo dal Messico al Marocco, dalla Turchia all’Egitto. Ma anche senza libertà vi è una comunità sempre crescente e concentrata sull’arte. Abbiamo bisogno che gli artisti raccontino i tempi che stiamo vivendo per avere una testimonianza, anche se la vita di questi artisti, sia di chi vive in Iran e non ha il permesso di filmare oppure di distribuire ed esportare i suoi film, sia di chi è dovuto espatriare, è molto dura”.
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