Inutile negare che uno dei maggiori punti di interesse nei confronti di Rabbia Furiosa – Er canaro, nuovo film di Sergio Stivaletti in uscita in 40 copie il 7 giugno (con prima al Cinema Aquila di Roma, alle 20.30 e alle 22.30 alla presenza del cast), è la concomitanza e il confronto con il Dogman di Matteo Garrone, che è valso a Cannes la Palma per la miglior interpretazione maschile a Marcello Fonte ed è basato sul medesimo orrendo fatto di cronaca nera diventato una leggenda voyeuristica negli anni ’80: l’omicidio da parte di un mite toelettatore per cani di un aggressivo pugile che lo aveva vessato per mesi dentro e fuori dal carcere.
Omicidio e tortura, che nei racconti popolari, proprio come nelle più affascinanti leggende metropolitane, si arricchiva della descrizione dei particolari più raccapriccianti (dal taglio dei genitali al letterale ‘lavaggio del cervello’ a scatola cranica aperta, con uno shampoo per animali), ed è proprio su quei racconti e sulla loro atmosfera malata ma al contempo intrigante – più che sulla cronaca – che il film di Stivaletti si basa. La parte ‘gore’, molto efficace e molto cruda (vi avvisiamo: c’è tutto, in piena luce e realizzato in maniera realistica con effetti speciali tradizionali, di cui Stivaletti, ricordiamolo, è un esperto prima ancora di essere un buon regista di genere) è riservata però agli ultimi dieci minuti, e la pellicola, molto ben scritta dallo stesso Stivaletti insieme ad Antonio Lusci e Antonio Tentori, accompagna lo spettatore al culmine della violenza procedendo per gradi, presentandone le motivazioni e il contesto culturale, sorprendendo nella sua commistione di western metropolitano, dramma e contaminazioni fantasy, come la presenza di una ‘super droga’ al posto della tradizionale cocaina, che rende forti ma anche instabili, o l’epica genesi ‘der Canaro’ che richiama la Catwoman di Tim Burton.
Molto si deve anche alla convincente prova degli attori Riccardo De Filippis, Romina Mondello e Virgilio Olivari, sempre molto in parte e quasi mai sopra le righe, e all’abilità dell’autore di valorizzare le riprese di una Roma romanticamente in declino – sia in centro che in periferia – pur nella freddezza del digitale. L’ambientazione è contemporanea. “E’ una sorta di ‘canaro ideale’ – dice Stivaletti – chiaramente ho evitato di fare una ricostruzione della Magliana negli anni ’80, lì basta che passa una macchina moderna e sei finito. Chiaramente c’erano delle limitazioni di budget, quindi ho preferito che il film avesse luogo oggi, con i cellulari e tutto. Però mi piace aver mantenuto un che di atemporale ad esempio nei vestiti e nelle pettinature dei personaggi. Ho scelto il Mandrione per le riprese perché lo amo e perché lo conosco, sono le zone dove lavoro e hanno un fascino che non trovi in altri quartieri, sono decadenti ma non squallide”. I film precedenti di Stivaletti, Maschera di Cera e I tre volti del terrore, traevano ispirazione dal fantastico, “ma quel fatto di cronaca – racconta ancora Stivaletti – a noi romani è rimasto dentro, ho sempre immaginato di poterci lavorare e inizialmente doveva essere parte di un film a episodi. Non si fece mai, ma io avevo la sceneggiatura pronta già da tempo. Diciamo che rispetto a Garrone ero più avanti, ma non trovavo un produttore, mi lamentavo che sono tutti solo contabili ma poi mi sono detto che forse sbagliavo anche io, che dovevo essere io a mettermi direttamente in campo e forse l’annuncio del film di Garrone mi ha stimolato, le cose si sono messe per il verso giusto. Ho fatto il film in casa, nel mio laboratorio e con la mia squadra, ma cercando di fare un film vero e proprio e non qualcosa di raffazzonato con poche lire prese in giro. Ho capito che il centro dovevano essere gli attori, forse un aspetto che ho sempre sottovalutato nelle mie opere precedenti, per far spazio agli effetti speciali e all’azione. Qui invece ho capito che non la storia doveva procedere in modo da portare lo spettatore ad aspettarsi quel che accade, e ho deciso di mostrare tutto perché io credo che avrei voluto vedere tutto io stesso, in un film sul Canaro, cioè trovo interessante capire come il regista può immaginare quello che è successo in quel momento. Non potevo farne a meno, perché sono proprio i racconti sul Canaro il fulcro del film, ho chiaramente dato un’occhiata ai dossier ma non ero interessato a ripercorrere tutto passo passo, sono più interessato adesso a saperne di più. Ma niente doveva stare lì solo ‘perché deve succedere’. E’ tutto legato ai personaggi e agli attori, ogni tortura ha un suo significato specifico”.
“L’uomo è cattivo – dice De Filippis – ma questo come attore non mi poteva bastare. Ho cercato la rabbia e sono risalito alle sue radici. Una sofferenza da tragedia greca, che mi ha permesso di inquadrare Er Canaro pur senza arrivare a giustificarlo. Era l’unico modo per poter raccontare un fatto così folle e turpe”.
“Il mio personaggio – dice Olivari, interprete del pugile – mi ha messo costantemente a disagio, perché sentivo il peso di essere un’ombra che incombe su una persona mite e indifesa. Paradossalmente proprio la scena della tortura e dell’uccisione mi ha liberato, è stata come un’espiazione”. “Ho una delle scene più difficili – chiude Romina Mondello – ma credo che non vedrò mai il film per intero perché mi fa troppa impressione l’idea!”
Il film avrà un passaggio anche allo Shorts Film Festival di Trieste.
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