‘Schindler’s list’: quando il cinema va oltre il cinema

Il capolavoro di Steven Spielberg il 30 novembre festeggia 30 anni


Ci sono film che fanno la storia del cinema; film che conquistano il pubblico e restano nella memoria. E poi ci sono film che escono dallo schermo e cambiano la nostra sensibilità pur rimanendo modelli esemplari di cosa sia l’arte del racconto per immagini. Schindler’s List, che il 30 novembre festeggia 30 anni di successo e memoria, appartiene a questa ristretta cerchia di capolavori che superano d’un balzo il tempo, la moda, la soggettività dell’autore e parlano, ogni giorno, al presente. Quando lo gira, Steven Spielberg ha 47 anni e si rigira tra le mani da dieci anni il racconto memoriale di un testimone diretto della vicenda di Oskar Schindler. Cittadino tedesco cresciuto in Moravia, membro del partito nazista dal 1936, un passato nei servizi segreti della Wermacht, si costruì una carriera di successo come industriale siderurgico al servizio del Führer. Ciò che raccontava nel memoriale Poldek Pfefferberg, uno dei circa 1200 ebrei salvati da Schindler sul finire della guerra, era invece la conversione del suo capo (Pfefferberg lavorava nella fabbrica di Schindler) dopo i massacri nel ghetto di Cracovia e di come, con astuzia e coraggio riuscì a sottrarre alle grinfie dell’SS e del loro comandante Amon Göth quasi tutti i suoi operai ebrei rischiando la vita e rimettendoci la sua fortuna. Oggi Oskar Schindler riposa nel cimitero di Gerusalemme sul Monte Zion ed è stato dichiarato “Giusto delle Nazioni” insieme a sua moglie Emilie. Di sicuro l’unico nazista ad avere un simile onore da parte dello Stato di Israele.

Spielberg è direttamente toccato dal tema della Shoah fin dall’infanzia quando subisce ripetuti atti di bullismo per le origini ebree dei suoi genitori, da cui ha appreso tutto l’orrore della persecuzione razziale in Europa e le storie del genocidio hitleriano. Ma non ne ha mai parlato nei film precedenti e per tutti gli anni ’90 cerca il regista giusto per produrre Schindler’s List. Offre il primo copione a Roman Polanski, cresciuto a Cracovia e in seguito autore de Il pianista, ma questi dichiara di essere troppo coinvolto per accettare; vorrebbe essere della partita Billy Wilder, ma l’opzione successiva è Martin Scorsese che abbandona dopo molte incertezze. Alla fine l’autore de Lo squalo si getta nell’avventura, colpito dalla crescita dei negazionisti, dalle trasformazioni dell’Europa dopo la caduta del Muro di Berlino, da una nuova ondata di antisemitismo. Il tycoon della Universal Sid Sheinberg, l’uomo che aveva scoperto Spielberg, finanzia il film a due condizioni: un budget molto ridotto e una realizzazione successiva a Jurassic Park il cui montaggio fu infatti ultimato durante le riprese di Schindler’s List. Spielberg accettò tutto pur di pagare il suo debito di sangue, tanto da rinunciare al compenso (“denaro macchiato di sangue”) e devolverlo alla Fondazione per la memoria della Shoah che da allora ne raccoglie le testimonianze visive in tutto il mondo. Il film ebbe la sua prima a Washington per uscire dopo due settimane nelle sale, giusto in tempo per ottenere 12 nomination all’Oscar e alla fine strappare ben sette statuette, diventando un film-evento in tutto il mondo con un incasso che moltiplicava per 10 (e anche più) il costo.

Una volta terminati i sopralluoghi in Polonia, il regista si convinse a girare in Bianco&Nero come se si trattasse di un documentario, cercò verità in ogni luogo (ad eccezione del vero campo di Auschwitz, parzialmente ricostruito alle porte del lager di Birkenau), si affidò ad artisti europei come il direttore della fotografia Janusz Kamiński o il violinista israeliano Itzhak Perlman per il tema-guida della musica, ingaggiò buona parte della troupe sul posto e lui stesso prese casa con tutta la famiglia alla periferia di Cracovia. Rispetto al “tono” della pellicola in bianco&nero, fece poche e celebri eccezioni dopo aver escluso che anche la successiva distribuzione in home video fosse “ricolorabile”: decise invece che le candele dello Shabbath a inizio film dovessero dare luce e calore allo schermo e che il cappotto rosso della bimba (Oliwia Dąbrowska, tre anni all’epoca delle riprese), apparendo due volte, risultasse un simbolo potente e forte della Vita contro la Morte. Fa storia a sé il finale, ripreso davanti alla tomba di Schindler, con la presenza di molti sopravvissuti ai lager, l’intera troupe del film e il protagonista che depone una rosa rossa per rendere una silenziosa testimonianza a chi seppe cambiare il destino di molti in nome della pietà e della giustizia.

Rivedere Schindler’s List oggi ha – non c’è dubbio – un valore particolare, sia per il momento storico sia per l’atemporalità che il film si è conquistato negli anni. In una ideale genealogia delle opere ispirate alla grande tragedia del genocidio, Shoah di Claude Lanzmann (1985) è il motore stilistico da cui discende l’estetica del capolavoro di Spielberg; tutto ciò che segue fino al recente “Zone of Interest” di Joanathan Glazer non può prescindere dalla lezione e dall’emozione generata dalla storia di Oskar Schindler. Ma se c’è un aspetto che spicca su ogni altro è l’equilibrio caratteriale con cui il regista divide i due protagonisti della storia: da un lato un uomo che ritrova se stesso (lo stupefacente Liam Neeson preferito ad attori più famosi perché capace di generare immediata empatia con lo spettatore); dall’altro il feroce ufficiale tedesco (Ralph Fiennes) che alterna, in una perfetta riproduzione della bipolarità, il Bene apparente e il Male assoluto insiti in noi. La totale partecipazione dell’autore, ma anche la misura con cui costruisce e mostra una delle pagine più terribili della Storia, compongono così un affresco che rimane indelebile. Quando oggi vediamo tutto l’orrore di cui è capace l’Uomo Bestia che ci circonda, non possiamo scordarci del monito di Schindler’s List e della sofferenza inflitta ad un popolo che nessuno voleva più.

Giorgio Gosetti
26 Novembre 2023

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