Un pastiche, secondo il senso letterale e metaforico della parola: Modi – Tre giorni sulle ali della follia di Johnny Depp, che s’annuncia come uno spaccato della biografia dell’artista livornese, è Modigliani senza Modigliani: più semplicemente rispecchia la retorica dell’artista maledetto e squattrinato, uno come tanti, senza tracciarne una personalità e una psicologia artistiche specifiche, mentre Modigliani ha un’identità molto peculiare e uguale a nessuno, ma qui Depp impasta luoghi comuni – tra cui la pastasciutta della locandiera Rosalie (Luisa Ranieri) – con simboli come la morte che sentiva incombere, anche per la precaria salute che lo accompagna sin da bambino, accanto a citazioni appoggiate qua e là per gusto personale, come Kafka con lo scarafaggio o Dante, con l’aperta citazione del Tanto gentile e tanto onesta pare. “Questo Modigliani è molto, molto una specie di alter ego di Johnny Depp, per cui racchiude dinamiche un po’ anarchiche ma anche leggere, ingenue, una certa purezza, però pronta a esplodere in qualcosa di pericoloso; dapprima no, ma poi ci ho pensato: ‘c’è un flusso per cui questo Modigliani somiglia molto a Johnny, e anche un po’ a me’, è il personaggio più lontano e più vicino a me allo stesso tempo”, commenta Riccardo Scamarcio, che al debutto alla Festa di Roma accompagna il film, senza Depp presente alla conferenza ufficiale “causa ritardo aereo”.
L’attore e regista americano è comunque giunto nella Capitale e nel tardo pomeriggio ha commentato il suo film e il suo futuro artistico, in attesa di ricevere in serata il Premio alla Carriera: “Ho toccato il fondo tante volte, ma posso ritenermi fortunato per quello che ho vissuto fino ad oggi”. Tra i prossimi progetti della voce e chitarra degli Hollywood Vampires ci sono due film da regista e due da attore: “non vi libererete così presto di me. Da attore dovrei interpretare Satana diretto da Terry Gilliam: spero che il film possa vedere la luce”. Poi, Depp, pensando al suo successo, commenta: “non mi lamento di essere famoso o cercato. Ma se dovessi tornare alla ‘normalità’ sarò contento per tutto ciò che ho fatto”.
Il Modigliani di Depp è, dunque, Scamarcio, che come personaggio debutta nelle prime sequenze dichiarandosi ebreo, quale era affettivamente per nascita, e affermando “parlo francese”, peccato che l’intero film sia parlante inglese, una scelta commerciale per il pubblico americano s’intende, ma una scelta perdente rispetto alla verità biografica e, soprattutto, perdente laddove non riesce a restituire un’atmosfera… di luogo, di sentimento sociale e personale, restando sul livello più superficiale del decoro, quando invece siamo nella Parigi squarciata dalla guerra: è il 1916 (a quattro anni dal suo trapasso, 24 gennaio 1920), la capitale di Francia è come un organismo smembrato, in cui il talento, la frustrazione, lo spirito di sopravvivenza, la passione sanguigna dell’artista livornese vibrano, ma appunto non restituendo un profilo artistico precipuo, ma quello ampolloso dell’artista spiantato e incompreso.
“Il nostro incontro è avvenuto in zoom, io fermo in un autogrill e lui in ufficio a Londra, alle 10 di sera”, ricorda Scamarcio, per cui “lo spirito dell’atto creativo è stato proprio il procrastinare, il fatto di uscire dalla gabbia del dover fare, per una dimensione più autentica e libera, e così è stato anche tra me e Johnny. Il film è stato fatto in un divenire continuo, sempre pronti ad accogliere gli incidenti, a far sì che la scena stessa suggerisse la strada giusta da seguire. Ritengo che Johnny Depp sia un artefice incredibile, più ancora che un attore incredibile, con cui ho potuto parlare di cinema, di Marlon Brando, dei suoi personaggi: erano pensieri veri; incontrare una persona come lui mi ha confermato tutto quello che ho coltivato come atteggiamento verso il lavoro, ovvero cercare di arrivare a un passo dal baratro, lì dove, sul filo, si trova l’humus creativo più interessante, altrimenti si fa solo un compitino. Johnny è stato un regista che si fidava di me e che mi ha fatto sentire amato”.
Luisa Ranieri ricorda che fosse in vacanza “quando mi è arrivata una telefonata dal mio agente francese, che non sentivo da un po’ di tempo, così quando mi ha detto ‘Johnny Depp fa un film e ti offre un ruolo’, ho riso e appeso. Non potevo fare il film perché non avevo le date, stavo per cominciare le riprese di Lolita Lobosco: la mia agente italiana s’è rifiutata di fermare Lolita, finché per una serie di incastri e volontà di Depp abbiamo messo insieme le giornate. Sono andata a incontrarlo, mi ha spiegato il film, e mi ha colpito la sua gentilezza… la capacità di guardare in un certo modo le cose. Inoltre, conosco Riccardo da oltre vent’anni ma mai avevamo lavorato insieme prima, così mi ha fatto piacere fare questa esperienza condivisa con un attore italiano e che fosse il protagonista”.
Il film è un adattamento dall’opera teatrale Modigliani: A play in three acts di Dennis McIntyre e, accanto a Modigliani, Depp costruisce un microcosmo, di artisti, ma soprattutto di esseri umani, così c’è il personaggio interpretato dall’eclettico Bruno Gouery, il pittore Maurice Utrillo, che annuncia di scegliere il fronte all’arte, come se lì potesse trovare delle certezze, ma soprattutto c’è quello che si restituisce come il vero soggetto interessante del film, Chaïm Soutine, nella realtà pittore russo naturalizzato francese, portato in scena da un commovente Ryan McParland, che assume nella mimica del volto, nella difficoltà dell’articolazione della parola, nello sguardo perennemente malinconico e infantile, il dolore che ne ha inciso l’infanzia e che nel tempo l’ha portato a imporsi nella pittura con un talento personalissimo quanto originale, in particolare quando decise di dipingere animali morti, da mosche a tranci di manzo, alcuni dei quali ospitati nel suo studio, con la compagnia del fetore repellente, effettivo e simbolico per il particolare universo di Soutine. McIntyre racconta sia “un progetto partito dodici anni fa, che Al dapprima avrebbe dovuto dirigere, ma poi ha detto che avrebbe preferito recitare: con Johnny avevano lavorato in Donnie Brasco, insomma, alla fine sono diventati fratelli in armi; la principale riscrittura del film sono state le dieci settimane di montaggio, un lusso. Il film è una grande performance”.
“L’arte per me è un oggetto che risuona con un soggetto: qualsiasi cosa potenzialmente può essere arte, è una questione di frequenza quasi elettromagnetica, perché l’arte è una cosa intima, misteriosa, che mi fa provare emozioni; poi ci sono anche cose oggettive e parlando di cinema 8 ½ forse è il film più bello che abbia mai visto”, dice Scamarcio, peccato però per l’occasione mancata di raccontare un uomo attraverso l’arte che l’ha definito, mostrando solo qua e là qualche tela e qualche scultura, ma senza mai cercare di estrapolare un’essenza psicologica dalla creazione, dal suo famoso tratto affusolato che ha applicato sempre a ritratti e nudi femminili, spesso orfani di occhi.
Dal principio del film sembra la trama potrebbe percorrere effettivamente la via delle peripezie dell’affermazione artistica, con la frequentazione contraddittoria del gallerista Leopold Zborowski (Stephen Graham), che gli promette l’incontro con Maurice Gangnat (Al Pacino), un collezionista americano che potrebbe cambiargli la vita e con cui Deep sceglie di mettere in scena un dialogo a quattr’occhi, con cui s’intavola un confronto sul concetto di “essere artista” e sulla natura dell’essere umano quando connessa all’attaccamento al denaro, spunti con un potenziale che però si circoscrivono alla sequenza, cui segue un epilogo di rabbia e di quiete dopo la tempesta di generica prevedibilità: Modì, qui, è uno e potrebbe essere centomila altri artisti ribelli e dannati, come da cliché, perché non si celebra, non si gioca, e non si fa gorgogliare il suo tratto di unicità. Scamarcio, sulla scena con Pacino ricorda: “quando sono arrivato alla prima lettura del film, a Budapest: non avevo ancora capito quale fosse il personaggio interpretato da Al… Per scaramanzia mi ripetevo che alla fine il film non si sarebbe fatto, mi pareva incredibile essere protagonista di un film diretto da Johnny Deep e con comprimario Al Pacino: fino alla fine ho pensato ‘non succederà’, finché Bruno mi ha detto: ‘ti rendi conto che farai questa scena con Al Pacino?!’. La scena l’abbiamo girata a Los Angeles, dove ho incontrato e parlato con Al, persona di una gentilezza estrema, con cui ho passato una giornata a casa sua, perché voleva ci conoscessimo: è stata la conferma di cosa significhi essere leggenda del cinema mondiale”. Quella scena, continua Scamarcio, “in copione erano 15 pagine, ma poi Johnny l’ha riscritta tutta… e sono diventate 27 pagine e io avevo un’ora di tempo per impararla: mi ha messo nella condizione peggiore, ma paradossalmente migliore, mi ha messo davvero a un passo dal baratro. Ho pensato: ‘se lui pensa che io ce la possa fare, allora ce la faccio’. La scena ha proprio respirato la precarietà, una condizione ideale per il rapporto tra Modì e Gangnat, specchio del rapporto violento tra l’artista e chi ha i soldi e finanza l’arte. E il film infondo parla di questo”.
Modi – Tre giorni sulle ali della follia è prodotto da Modi Productions, IN.2 Film, ILBE, per l’Italia distribuito da Be Water Film e Medusa Film: al cinema dal 21 novembre.
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