CANNES – È uno straordinario lavoro di docu-fitcion, che unisce immagini ad animazioni (che portano la firma di Simone Massi), il film che Stefano Savona presenta alla Quinzaine des Réalisateurs, La strada dei Samouni, il racconto del massacro di ventinove civili, componenti di una stessa famiglia contadina, avvenuto durante l’operazione ‘piombo fuso’ condotta dall’esercito israeliano nel 2009. Non è la prima volta che il documentarista, che è anche archeologo e antropologo, affronta il tema della guerra a Gaza: già nel 2009 era riuscito ad infiltrarsi nella Striscia per realizzare un videodiario, pubblicato quotidianamente sul suo blog online, “per superare l’embargo delle immagini e filmare la guerra dal di dentro, giorno dopo giorno, anche come provocazione verso chi la raccontava solo dall’esterno”. Quel progetto è poi diventato il suo primo film, Piombo fuso, che raccontava la vita sotto le macerie e il punto di vista di chi viveva nella Striscia. Una volta finita la guerra, racconta Savona, è andato a Gaza City con l’intenzione di tornare subito a casa, ma ha conosciuto la famiglia Samouni, una comunità di contadini che durante i combattimenti era rimasta nella propria casa nella periferia rurale di Gaza, fiduciosa di salvarsi dalla guerra. Vengono, invece, brutalmente sterminati, forse per sbaglio o forse con dolo, durante un devastante attacco aereo israeliano che ha distrutto tutto: case, persone, campi. “Ho incontrato quelle persone che mi hanno raccontato con straordinaria dolcezza e forza gli eventi drammatici a cui erano appena sopravvissuti. Volevo condividere con il pubblico l’emozione di chi conosce delle persone che possono sembrare a noi affini, una famiglia che non si aspettava di diventare, per sfortuna o per eccesso di fiducia, martire. La loro era una resistenza subita oltre che scelta, come lo è stata per molti versi anche quella dei contadini nell’Italia partigiana che si sono trovati in mezzo a una guerra che non avevano scelto in prima persona”.
Una “fiaba nera”, definisce il film il regista, raccontata attraverso lo sguardo di Amal, una ragazzina creduta morta e invece sopravvissuta. E per rendere giustizia alla sua storia non si è fermato alla constatazione della tragedia ma ha scelto di realizzare un ritratto di famiglia capace di raccontare anche il prima e il dopo quei tragici avvenimenti. “Questa fiaba non nasce dal mio amore per il genere ma dalla loro maniera di raccontarsi, risalendo sempre a quello che erano prima, probabilmente come modo di affrontare il dramma e superare lo shock. La strada dei Samouni, però, non è un film che idolatra la memoria o che pensa al passato come momento ideale, ma qualcosa che sente il bisogno di allacciarsi al passato per capire il futuro. Se viene fatta tabula rasa sulle cose accadute ognuno ci scrive poi sopra quello che vuole, e invece il cinema ha la funzione di andare ad esplorare e raccontare la verità che c’è dietro. Il cinema è fatto per opporsi alle macerie e alle smagliature del tempo, se diventa compiacimento della distruzione partecipa, con le migliori intenzioni, alla demolizione”.
Il passato attraversa il filo dei ricordi familiari di quella che sembra un’antica comunità contadina, come quel grande albero che non c’è più su cui Amal e i suoi fratelli si arrampicavano o il caffè portato dalla bambina a suo padre nel frutteto prima che arrivasse la guerra. Immagini che rivivono sullo schermo grazie all’animazione di Simone Massi, che ha sottolineato di essersi messo completamente al servizio dello stile e della narrazione richiesta da Savona, e che per la prima volta ha collaborato con un team di disegnatori, una ventina e in maggioranza donne, a cui ha fatto una sorta di prima formazione per arrivare a riprodurre uno stile omogeneo: “Ho mostrato loro come lavoro per sottrazione, partendo da un foglio completamente nero che viene graffiato, togliendo la materia per far emergere la luce da un chiaroscuro sporco e sofferto”. “L’animazione di Massi ha a che fare con la terra – sottolinea il regista – va a cercare la memoria che si trova all’interno di un campo grasso e ricorda il lavoro di chi zappa la terra faticosamente. C’è una certa sincronicità tra il lavoro di Simone e le storie dei contadini raccontate”.
Il film, una coproduzione Italia-Francia che ha avuto una lunga fase di gestazione iniziata nel 2012, è stato realizzato da Picofilms, Dugong Films con Rai Cinema, Alter Ego Production, in coproduzione con ARTE France Cinéma, ARTE France Unité Société et Culture.
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