A vent’anni da Private, esordio folgorante di Saverio Costanzo, che con questo film vinse il Pardo d’oro a Locarno, il regista romano incontra il pubblico della 19ma Festa di Roma sotto l’etichetta Absolute Beginners e racconta i segreti di quella lavorazione. E’ un’opera prima drammaticamente attuale perché parla di conflitto tra Israele e Palestina, di convivenza forzata e di varie forme di violenza e resistenza, andando alla radice della tragedia che insanguina il Medio Oriente.
“Avevo 26 anni, eravamo 12 ragazzini, una troupe piccola di esordienti”, racconta Costanzo al giornalista e critico Enrico Magrelli. Dopo una formazione lontana dal cinema, con una laurea in Sociologia, il giovane Costanzo si è avvicinato alla regia durante un soggiorno a New York durato tre anni. “C’era un bar frequentato da italo-americani a Brooklyn dove stazionavano anche dei boss, tra cui Tony Genovese. Io cominciai a filmare con delle telecamerine e per un anno, con il loro consenso, ho ripreso la vita di questo locale. Non mi interessava la mafia, ma il tessuto umano e sociale. Quei filmati piacquero a Gianluca Nicoletti che lavorava in Rai ma che pensava che, essendo io figlio di Maurizio Costanzo, avrei preferito Mediaset, invece non fu così, li cedetti proprio alla Rai che li mandò in onda a puntate”.
Uno dei punti di riferimento del giovane Costanzo fu il cinema del grande Frederick Wiseman. “Lui è il più puro dei documentaristi. I suoi film durano molte ore perché lui riprende la vita, ricordo che mentre li vedevo in una retrospettiva, dormivo e mangiavo, perché andavano avanti anche per otto ore. Influenzato dal suo cinema, ho fatto un documentario sulla terapia intensiva, Sala rossa, che raccontava i casi più gravi di un Pronto Soccorso”. Più tardi, a Gerusalemme, ospite del corrispondente del Tg1 Paolo Longo, entrò in contatto con la questione palestinese dal vivo. “Nella Striscia di Gaza in un villaggio chiamato Tulkarem c’era questa casa attaccata alla base militare israeliana dove viveva una famiglia araba, padre e madre con sette figli. I soldati stavano al secondo piano e loro al primo. La sera venivano chiusi in salotto e da lì assistevano alla guerra. C’erano tutta una serie di regole da rispettare. Il padre era un preside di scuola media molto colto che aveva fatto una tesi di dottorato sulla scrittrice Margareth Oliphant. Stava provando a insegnare ai figli la resistenza passiva, diceva che dovevano rimanere nella casa perché era l’unico modo di essere e citava Shakespeare, diceva che i profughi smettono di esistere”.
Da quella storia vera con Alessio Cremonini e sua sorella Camilla Costanzo scrisse il copione che propose a Mario Gianani, suo socio in Offside. “Nessuno ci ha presi in considerazione, così Mario ha ipotecato la sua casa per fare il film, poi è arrivato Luciano Sovena dell’Istituto Luce che ci ha dato retta e lo ha distribuito”. Costato 100mila euro, venne girato in Calabria, a Riace, “dove c’erano queste case costruite a metà, come in Palestina”. Il protagonista era il grande attore palestinese Mohammad Bakri, mentre il capo dei militari israeliani era Lior Miller. “Ho fatto i casting nelle scuole israeliane e i ragazzi che avevano fatto il militare erano entusiasti perché avevano bisogno di raccontare una violenza che anche loro avevano subito. Poi Bakri era conosciutissimo, aveva fatto una maratona teatrale quando morì Rabin, era per loro una garanzia”.
“L’unico modo per far esprimere il meglio delle persone è non silenziarle, ma provare a capire. Così feci. Ho dato la possibilità a arabi e palestinesi di raccontarsi in un luogo terzo. Era la prima volta che si faceva un film sui Territori Occupati con arabi e israeliani insieme. Spesso gli attori si autogestivano e molte cose non le volevano fare, altre sono venute dall’improvvisazione. Serviva un punto di vista più radicale”. infine una notazione politica: “Se gli israeliani pagassero quello che spendono in armamenti nell’educazione, tra vent’anni il conflitto sarebbe finito, ma se continuiamo ad alimentare l’odio, non finirà mai”.
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