“Giochiamo a poker?”. Con questa domanda – fatta da un adolescente ad un gruppo coetanei – apre Poker Face, dopo The water diviner la seconda opera da regista per Russell Crowe, un film che ritorna anche sul soggetto dell’acqua, infatti le prime scene si svolgono non solo in un tempo passato rispetto al presente, adulto, ma in una natura incontaminata e a picco su uno specchio d’acqua che torna nell’immaginario e nell’immagine del film, che arriva alla Festa in collaborazione con Alice nella Città, poi dal 24 novembre in sala.
Il gioco d’azzardo, il thrilller, il lusso, ma anche la malinconia dello sguardo – e dell’anima -, il senso dell’amicizia, e quello della vita: Poker Face è una tessitura equilibratissima di una miscellanea di ingredienti che lo restituiscono come un racconto complesso e solido, dallo svolgimento lineare ma non scontato, che cuce insieme lo spionaggio illecito e la dolcezza della paternità, le macchine sportive e la morte.
Il film, come racconta Crowe, ha avuto un travaglio e un parto complessi: “il progetto mi è arrivato come una produzione già finanziata, mi è stato proposto 5 settimane prima dell’inizio riprese, poiché chi si doveva occupare della regia non era più disponibile. Io avevo appena perso mio padre, ero in una condizione di riflessione: ‘cosa faccio?’, mi chiedevo. Eravamo in piena pandemia e Sidney stava entrando in un lockdown mai vissuto. Così, ho applicato un principio che era di mio padre: ho pensato che c’erano 280 persone della troupe che avrebbero rischiato di non dar da mangiare alle proprie famiglie; io sono abituato a preparare il lavoro, ma qui mi ha guidato questa ottica, che sì, avrebbe avuto proprio mio padre. ‘Posso lasciare a piedi 280 famiglie?’, così ho deciso di accettare, senza una sceneggiatura, senza un cast, a ridosso delle riprese e col lockdown: lì la mia esperienza ha forgiato il film, qualcosa in continuo movimento; nottetempo ho riscritto in 9 giorni la prima stesura, in 4 giorni la seconda, nel frattempo chiamavo i colleghi come Liam Hemsworth. Infine, il puzzle s’è composto, una situazione difficile: un film che doveva essere d’azione è diventato un film di eredità, aveva tutto tranne il tempo. Un’impresa impossibile, ma fare film è la sfida che fa parte del mio dna. Tutto questo ha dato forma al film, che abbiamo dovuto interrompere e sette mesi dopo riprendere, poi ci sono state le inondazioni che hanno spazzato i set ma… il film s’è fatto e tutte queste esperienze sono concorse nel film. Tutti ci troviamo in situazioni in cui perdiamo le nostre certezze, dubitando di quello che stiamo decidendo, ma se sei il capitano di una nave non devi avere ragione, devi essere sicuro di quello che stai facendo. Pressione ce n’era da vendere ma era lavoro, io ho fatto del mio meglio, così il film s’è trasformato in qualcosa di intimo e personale”.
Russell Crowe è Jake Foley, giocatore d’azzardo di professione, creatore – con l’amico Drew (RZA – Robert Fitzgerald Diggs) – di Riffle, un software a fine militare che monitora segretamente, sistema non secondario nello spingere in avanti la narrazione, che sembra… ruotare intorno ad una “rimpatriata” tra quei cinque adolescenti, per una partita da adulti, tra uno diventato scrittore di successo (Aden Young) e l’altro ministro (Steve Bastoni), ma anche uno meno rampante e galeotto (Liam Hemsworth): tutta la “scena madre” succede nella villa di Foley – vedevo e padre dell’adolescente Bec -, un luogo paradisiaco affacciato sull’Oceano, architettato tra la preziosa cantina e il panorama affacciato su quella distesa d’acqua sull’infinito… . “La mia posizione – sul gioco d’azzardo – è impopolare”, spiega Crowe. “Penso il peggio del gioco d’azzardo, permettere di giocare online 24h su 24h è perverso e aberrante: io sarei terribile se lo facessi, perché spenderei fino all’ultimo centesimo, poiché tendo a correre rischi, ma un conto è nel lavoro, un conto nel gioco. Ho avuto modo di parlarne con i miei figli di 16 e 18 anni: c’è stata una discussione ma poi hanno capito la mia posizione”, seppur il suo personaggio, evidentemente distante dalla persona, recita una frase chiave a restituire il suo senso dell’azzardo: “minimizzare le perdite, massimizzare le vincite, rimanere in gioco il più a lungo possibile”. E se anche la vita può essere in qualche maniera appaiata ad un “gioco d’azzardo”, nelle ore precedenti la serata della partita, il suo avvocato (Daniel MacPherson) – anch’esso tra gli amici – gli domanda espressamente se voglia “andare fino in fondo” e Foley risponde senza esitazione, come si fa quando si è davvero molto sicuri di sé e si sa che non si ha niente da perdere, come per lui, che infatti ribatte: “la miglior decisione mai presa”. Ci sono in gioco 25 milioni di dollari in fiches da tavolo verde e c’è in gioco la vita, non solo perché la trama si complica con l’ingresso in scena – e nella villa – di un terzetto di ladri: la vita, quella di Foley, è in bilico e anche di più, al di là di questa nottata, e lui – consapevole di questo – sceglie di “entrare nelle vite degli altri”, degli amici, con Riffle, e di portarli a sé per lasciare loro un testamento dapprima morale, perché “la vita è un gioco di karma”, recita ancora Jake, voce fuori campo, la cui sintesi vive nella riflessione ultima: “la vita, l’amicizia e l’amore cominciano quando si perdonano le imperfezioni”.
Russell Crowe, la cui immagine recente è certamente lontana da quella plastica de Il gladiatore, in Poker Face porta un ingombro fisico e soprattutto emotivo che riempiono la scena e la storia – particolarmente concentrato nell’espressività degli occhi, perennemente malinconici e determinati: “un film come The water diviner aveva un’impostazione perfetta, 18 mesi di preparazione, i finanziamenti, il cast, 50 persone di troupe con cui ho potuto spostarmi in Turchia: quella era una situazione ideale, mentre questo film è stata una sfida, la sfida perfetta per me a questa età”.
Infine, a margine della presentazione di Poker Face, Russell Crowe fa una riflessione sugli autori italiani, dicendo: “Di certo registi/attori/compositori italiani – per cui direi una stronzata a buttar lì dei nomi – mi hanno influenzato nella carriera d’attore, ma anche nel mio essere cinefilo”.
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