La storia di Pavarotti inizia in Amazzonia, a metà degli anni ’90. La storia documentaria, quella diretta da Ron Howard, regista premio Oscar, ha scelto un’apertura inattesa per una storia e una persona profondamente italiane: inizia infatti con un filmato personale di un viaggio nella Foresta, in cui il tenore scopre in mezzo al “nulla” della Natura un teatro in cui cent’anni prima aveva cantato Caruso, dove lui stesso tiene a quel punto a improvvisare un’aria. Un inizio non prevedibile, lontano da quella Modena natìa e sempre portata con sé per il mondo, ma affatto distante da quello che sembra essere stato lo spirito di Luciano Pavarotti, almeno così come lo restituisce il documentario, presentato dal suo autore e dal produttore, Nigel Sinclair, in anteprima alla Festa di Roma dello scorso autunno e in Selezione Ufficiale, uscito poi come evento il 28-29-30 ottobre con Nexo Digital, e stasera in prima tv su Rai Uno.
“Per un anno un gruppo di persone ha lavorato sull’infinito materiale a disposizione: ho capito che non siamo simili Pavarotti ed io, a cui invidio il modo straordinario di affrontare la vita, e quando ho iniziato a comprendere questo concetto, ho inteso come attraverso le arie d’Opera potevamo raccontare la sua storia. Ci ha davvero colpito la storia della famiglia, le interviste sono coraggiose, e rendono omaggio all’uomo; quello che io ho ammirato di Pavarotti è che da bambino, come dice lui stesso in un’intervista, ha rischiato di morire (di tetano, per cui rimase in coma due settimane) e da lì ha deciso di vivere a fondo la vita, interpretando anche i drammi come un’opportunità: adoro la sua gioia, anche se nei suoi occhi c’è l’umanità della malinconia. Una vita avventurosa, complessa, la sua: proprio per questo suo sentire ha dato molto a noi, da questo animo è nata tanta arte. Ho conosciuto la sua umiltà, era grato per quello che aveva raggiunto, e consapevole che il talento era un dono di Dio, che cercava di sfruttare con un duro, duro lavoro”, dice Ron Howard, accanto al produttore Nigel Sinclair, per cui: “E’ stato straordinario indagare il suo carisma, la persona. Difficile era includere la musica nel film, un’aria va collocata con un certo studio: il montatore, con Ron, hanno concertato un equilibrio per farla sempre vivere con il racconto d’immagini e nel rispetto dell’Opera. Ci ha colpiti subito il suo non dimenticare mai le sue origini, il cibo emiliano, Modena, un’intimità profonda: cercava sempre di cucinare per gli altri nel mondo, per lui segno di amicizia”.
Pavarotti sostanzialmente apre e chiude con il primo piano del maestro, inquadrato per mano di Nicoletta Mantovani, che in un periodo della loro vita insieme racconta come fossero continuamente inclini a filmare tutto, e da questo filmato personale nasce la domanda nucleo del film: “come vorresti essere ricordato tra 100 anni?”, gli domanda lei. E nella risposta che il tenore dà alla moglie c’è l’essenza del suo concetto d’arte, quella visione per cui spesso è stato anche fortemente criticato e messo in discussione, perché troppo pop e poco “aristocratico”, secondo certa critica. Luciano Pavarotti risponde infatti che vorrebbe essere ricordato come un artista che ha portato l’Opera alle masse, nel senso più nobile del termine. E così è stato.
Luciano Pavarotti, nato a Modena del 1935, prima maestro elementare, trascorre alcuni anni della sua giovinezza condividendo con il papà Ferdinando, fornaio e tenore, la corale Rossini della città, in cui entrambi cantano: un vissuto, dalle parole del maestro, che restituisce il suo senso di appartenenza, di famiglia. E poi arriva il 29 aprile 1961, La Bohème, il ruolo di Rodolfo, fino al debutto internazionale a Londra, alla Royal Opera House, a sostituzione del celebre Giuseppe Di Stefano: Opera House dove Luciano Pavarotti torna più volte, tra cui nel 1994, occasione in cui s’esibisce dinnanzi a Lady Diana, con cui stringe un’amicizia e in qualche modo dà un primo via a quella che poi è stata un’importante parte della sua vita, in cui Pavarotti ha usato il talento e la musica per l’impegno sociale, fino alla nascita del Pavarotti & Friends: “Non solo era un genio ma anche un ambasciatore per l’Opera, parlava apertamente di renderla popolare, e l’ha fatto: mi auguro che il nostro film possa rendere un po’ giustizia a questa missione; ho cercato di fare un film che potesse arrivare anche a chi non segue l’Opera, e magari così la scopra”, dice in merito Howard.
Sono le parole della figlie, Cristina, Giuliana, Lorenza, della loro mamma Adua, poi di Nicoletta Mantovani, che con il maestro ha avuto Alice, adesso adolescente, a restituire, con coraggio e garbo, ma senza mancare in franchezza, anche quando dolorosa o critica, il Luciano uomo, che non manca però mai nemmeno nel racconto di Bono Vox o del suo storico secondo manager (prima è stato Herbert Breslin per 36 anni), l’ungherese Tibor Rudas, e con lui Placido Domingo e José Carreras, rapporto d’arte e d’amicizia culminato nell’indimenticabile Nessun Dorma eseguito a tre voci – I Tre Tenori – il 7 luglio 2000 alle Terme di Caracalla, diretti da Zubin Mehta. “Abbiamo intervistato 53 persone, tutti volevano raccontare Luciano con franchezza; nelle famiglie, poi, certe cose accadono, ma la magnifica Adua racconta di quando, lui ormai malato, lo è andato a trovare e lo ha imboccato: ho pianto dopo il primo montaggio di queste interviste in cui tutte e due le famiglie si sono riunite”, afferma Sinclair, a cui fa eco il regista: “Ho parlato di coraggio, e in queste interviste si vede che c’è il perdono senza l’oblio, senza dimenticare il dolore, per cui le considero tra le sequenze più interessanti”, e continua dicendo come: “Pavarotti era interessante come soggetto per un film perché conosciuto nel mondo come artista, ma meno lo era la sua vita, ho pensato: capire la sua vita ha mostrato moltissimi aspetti con cui potevo rapportarmi. Da non esperto di lirica, ho capito che la sua vita aveva qualcosa di analogo all’Opera: in alcune sue esibizioni, da regista riuscivo a comprendere che cantava ma quella non era solo un’esibizione, aveva un reale rapporto emotivo con la messa in scena, così abbiamo costruito il film intorno a delle arie; la famiglia poi era disponibile ad essere intervistata, ad affidarsi e condividete la verità, dando tanto di sé e dandoci accesso a materiale inedito, che mostra un Pavarotti onesto, che rispecchia la sua vita, una vita che meritava di essere celebrata”.
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