Roma Termini: fenomenologia del clochard

La stazione ferroviaria principale della capitale diventa teatro in cui vive un gruppo di uomini e donne per i quali la stazione non è un punto di passaggio, ma un luogo di vita


Roma Termini, stazione centrale di Roma, principale stazione d’Italia: 480.000 passeggeri in  transito ogni giorno. Tra tutta questa gente, nascosto in mezzo alla folla, vive un gruppo di uomini e donne per i quali la stazione non è un punto di passaggio, ma un luogo di vita. Termini diventa allora un’immensa anonima abitazione, una città nella città che ospita queste persone e le aiuta a trovare un modo per sopravvivere senza niente. Quattro uomini, storie di persone in caduta libera, che, giorno dopo giorno, si ritrovano sempre più ai margini della società. Svanire lentamente, diventare invisibili: non più Stefano, Angelo, Tonino, Gianluca, ma solo un altro, anonimo, clochard.

Il documentario Roma Termini di Bartolomeo Pampaloni, prodotto dallo stesso regista, in collaborazione con Edmée Millot e co-prodotto da Andrea Ricciardi per Albamada, passa al Festival di Roma nella sezione Prospettive Italia. Pampaloni, nato a Firenze nel 1982, è laureato in Filosofia a Firenze e si è formato come regista a Parigi, dove ha frequentato il corso di cinema all’Université Paris 8-St. Denis. Rientrato in Italia, è stato selezionato al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, e ha lavorato come assistente di Paolo Virzì nello spettacolo ‘Se non ci sono altre domande’.

 “Sono arrivato a Termini un giorno di novembre – racconta – Ancora il freddo non pungeva, c’era il sole quella mattina. Volevo vedere da vicino, parlare con chi non ha voce, avvicinarmi a chi non è  da avvicinare. Così, giorno dopo giorno, si è aperto sotto ai miei occhi un universo parallelo, un  mondo sotterraneo in continua metamorfosi ed evoluzione, con le sue regole, i suoi codici non  scritti e le sue quotidiane storie di sopravvivenza e sopraffazione. Che cosa succede ad una  persona quando si ritrova senza nessuno, per la strada? Che vuol dire staccarsi dalla comunità  e scivolare lentamente nell’anonimato? Queste le domande che hanno animato la mia ricerca, il mio bisogno di comprendere, mostrare, entrare nei meandri di una psiche che oramai ha perso il proprio centro. Volevo un film sincero, diretto, nato dalla strada e dalla verità di vite vissute fino in fondo, di emozioni colte sul nascere. Nessuna troupe e nessuna sceneggiatura, per lasciare che fossero i protagonisti stessi a dirigere lo sguardo, a portarlo con naturalezza sul loro quotidiano, senza i sensazionalismi o i facili pietismi della retorica mediatica. Questa è stata la mia maniera di restare umano: cercare di mostrare queste persone per quello che sono e non per quello che rappresentano”.

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20 Ottobre 2014

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