Roberto Minervini: “Nel ghetto bianco dove odiano Obama”

A Cannes abbiamo intervistato il regista marchigiano (ma vive nel Texas) che ha portato al Festival, in Un Certain Regard, il suo documentario shock Louisiana (The Other Side)


CANNES – E’ nato a Fermo, una piccola città industriale delle Marche nel 1970, in una famiglia piccolo borghese, appassionata di teatro. Dopo la laurea è andato all’estero, per trovare lavoro, dalla Spagna si è trasferito a New York, insieme alla sua futura moglie, oggi sua co-regista, Denise Ping Lee. Trovato impiego come consulente finanziario ma, dopo l’11 settembre, è stato mandato a casa. Con i soldi di un risarcimento, come vittima indiretta dell’attentato alle Torri, si è iscritto a un master in Media Studies. Il resto è cronaca: il suo film precedente, sempre qui a Cannes fuori concorso, Stop the Pounding Heart, ha vinto moltissimi premi, tra cui il David di Donatello, l’ultimo, Louisiana (The Other Side) è in competizione nella sezione Un Certain Regard – “Sono curioso di incontrare Isabella Rossellini, presidente di quella giuria, e sapere cosa ne pensa” – e sarà anche nelle sale, con Lucky Red, a partire dal 28 maggio.

E’ girato con il suo metodo, immersione totale in un territorio, commistione tra cinema-verità e linguaggio sofisticato nella ripresa e nel montaggio. Ma soprattutto con la voglia di mettere al centro un territorio umano marginale, estremo. In questo caso un ghetto bianco dove la quasi totalità delle persone, adulti, adolescenti, donne, fanno uso di droghe, specialmente metanfetamine, spesso di fabbricazione casalinga. Ci sono immagini molto crude, al limite del tollerabile per descrivere la vita quotidiana di una coppia, Mark e Lisa, che si lasciano riprendere anche nell’intimità o mentre si bucano. Del resto le anfetamine azzerano le inibizioni. Poi il film sposta l’obiettivo verso un contesto più allargato, ci catapulta in un raduno paramilitare, veterani agitati da paranoie politiche, dediti al culto delle armi, ostili a Obama come prima lo erano a Bush, che si addestrano al combattimento e organizzano manifestazioni, anche davanti alla Casa Bianca. Anche loro emarginati come tutti i personaggi di questo affresco allucinato, ritratto di “un’America in corto circuito”, come la definisce lui. Prodotto dalla francese Agat Film (che coinvolge anche Robert Guédiguian) e dall’italiana Okta (Paolo Benzi e Dario Zonta) con Rai Cinema, il MiBACT e MyMovies, il film è costato poco meno di 500mila euro.

Minervini, come ha ottenuto la piena fiducia delle persone riprese? Ha puntato anche su una certa dose di esibizionismo da parte loro? 
Certo, la voglia di farsi vedere è una condizione necessaria per fare un film del genere e credo che serva a esorcizzare la loro paura – pienamente giustificata – di essere completamente abbandonati e dimenticati, dalle istituzioni e dal resto dell’America. Loro vogliono essere rappresentati, anche se il film, almeno per ora, non uscirà negli Usa, so che, appena avranno il dvd, lo metteranno su youtube. 

Ci sono stati momenti di crisi, momenti in cui il limite etico che un documentarista si deve porre è entrato in campo?
C’è stato un dialogo costante con loro e anche momenti in cui abbiamo abbandonato il progetto. Con mia moglie, che è creatrice insieme a me del film, c’è un continuo ripensare a ciò che abbiamo filmato per capire le storie che si possono raccontare. Condividiamo questa fase di scrittura parallela al film insieme ai personaggi. E valutiamo i limiti dal punto di vista etico.

Lei, tra le altre cose, mostra anche una donna incinta che si buca.
Ho documentato per un anno la sua vita, la nascita della bambina, i suoi spogliarelli, l’arresto del marito ventenne per violenza, la condanna a vent’anni della madre per produzione di anfetamine. Poi non tutto viene montato su 150 ore di girato. Ma l’effetto shock è necessario per approfondire il dibattito. Come accadeva con certe foto del Vietnam.

Perché la Louisiana?
Ci sono arrivato grazie a Todd Trichell, uno dei personaggi di Stop the Pounding Heart. Lui è l’unico della sua famiglia che si è costruito una vita “normale”, scappando in Texas. Nella Louisiana del Nord il 60% delle persone è disoccupato, distrutto dalle metanfetamine e dalla povertà. Vivono una rabbia nei confronti di tutti quelli che non sono come loro e delle istituzioni che li hanno abbandonati. Ed è una terra di nessuno, in quei luoghi la polizia non entra neppure.

Quindi ha scoperto i veterani. 
Da intimista, come era inizialmente, il film si è allargato a una prospettiva politica. Volevo mostrare il Midwest alla deriva, antigovernativo e antiliberista. Vittime della politica guerrafondaia degli Usa, i veterani di oggi sono ventenni disabili che cadono nelle droghe. Il presidente Obama è considerato un criminale, come prima di lui Bush. E’ come se i bianchi poveri si rivoltassero contro il presidente nero. Quel ghetto bianco è inaccessibile ai neri.

Lei vive e lavora negli Stati Uniti, c’è un legame tra il suo cinema e l’Italia?
Vengo dalle Marche calzaturiere, ho visto le crisi dell’artigianato e sono scampato per caso al destino dell’operaio. Anche lì negli anni ’80 ho conosciuto l’autodistruzione, la gente che moriva per overdose, sembrava di essere in guerra.

Farebbe un film in Italia?
Ora sì, all’inizio ero solo, senza produttori, adesso ho trovato sostegno ed entusiasmo anche nel mio paese. Ci sono le premesse per una storia italiana. Ma senza la benedizione del Festival di Cannes un film così sarebbe etichettato come fringe e sensazionalista. Cannes ti dà credibilità. Thierry Frémaux considera il mio lavoro importante, dice che nessuno racconta l’America così.

Pensa anche a un film di finzione?
Ho vari progetti: un documentario sulla guerra in Iraq, che racconti il prima e il dopo. Oggi in qualsiasi centro commerciale americano trovi centri di reclutamento e in tv passano gli spot dei marines: così l’esercito diventa glamour. Mi piacerebbe anche fare una storia di finzione andando a ritroso per ritrovare le radici delle ideologie militariste ai tempi della guerra civile. Usare i veterani di oggi per interpretare le giacche blu e osservare i parallelismi. Per le nuove generazioni l’America non ha mai smesso di essere in guerra.

Cosa la spinge, a livello personale, a nutrire questo interesse per la guerra?
Volevo diventare un fotoreporter di guerra, ma mia moglie non avrebbe mai accettato. Però cerco le guerre ovunque. Trovo che come testimoni della guerra ci si senta piccoli, inoltre si può morire in qualsiasi momento, mentre con il cinema ci si sente troppo grandi, si rischia di diventare dei palloni gonfiati.

Si sente vicino alla poetica di Gianfranco Rosi?

Sì, vicino a Rosi e lontano da Michael Moore, perché i miei film non sono slogan o manifesti politici. 

Quali sono i suoi modelli?
Pennebaker, con cui ho studiato, che è un mago dell’osservazione. I brasiliani del cinema marginale, il filippino Lino Brocka.

autore
21 Maggio 2015

Cannes 2015

Cannes 2015

Le Figaro riflette sulla delusione italiana a Cannes

Il quotidiano francese dedica un articolo al disappunto degli italiani per il mancato premio al festival: "Forse è mancata una lobby organizzata"

Cannes 2015

Italian Pavilion, dove il nostro cinema parlava (anche) straniero

"Dà l'idea di un Paese che funziona". "L'ulteriore dimostrazione che l'unione delle forze può veramente andare incontro alle esigenze di ogni categoria del cinema italiano".Sono solo alcuni dei commenti sul nuovo spazio del cinema italiano a Cannes, per la prima volta allestito nell'Hotel Majestic, con una terrazza che affacciava sulla Montée des Marches, due sale per le attività professionali e l'ormai famoso ingresso con il tunnel caleidoscopico. E' stato visitato da circa 3mila persone, di cui oltre il 50% stranieri. Sul finale, presente anche il ministro Franceschini."Tutto ciò è stato realizzato con una spesa leggermente superiore a quella che sostenevamo gli anni scorsi per avere il solo spazio sulla spiaggia nel Village International", spiega Giancarlo Di Gregorio

Cannes 2015

L’era Pierre Lescure al Festival di Cannes

Roberto Cicutto, amministratore delegato di Istituto Luce Cinecittà, commenta il contestato palmarès di questa edizione del festival. "Sulle decisioni delle giurie è inutile soffermarci. Si può condividerle o meno ma pretendere di sapere come dovrebbero comportarsi e' da ingenui. Dobbiamo essere soddisfatti che nell’edizione appena finita il cinema italiano e in generale l’industria audiovisiva si è presentata più compatta, con nuovi strumenti per la promozione e l’attrazione di investimenti e soprattutto con un’offerta di film pieni di talento e molto diversi tra loro. Vorrei però segnalare alcuni cambiamenti significativi nel DNA del Festival più importante del mondo"

Cannes 2015

I film italiani mai presi in considerazione per i premi

Rossy De Palma si lascia andare a qualche confidenza sul lavoro dei giurati: "Abbiamo pianto tutti con il film di Moretti, ma volevamo premiare la novità di linguaggio"


Ultimi aggiornamenti