VENEZIA – Vivere (e girare) pericolosamente, è questa la cifra di Roberto Minervini, italiano di Fermo nelle Marche, che ha scelto di abitare a Houston, nel Texas e di raccontare l’America del sottosuolo, in questo caso il risorgere del Ku Klux Klan e l’intolleranza razziale. 48 anni, esponente di spicco del cinema del reale di cui fa parte anche Gianfranco Rosi, notato nei grandi festival con opere come Stop the Pounding Heart (2013) e Louisiana (2015), stavolta è in concorso a Venezia con What You Gonna Do When the World’s on Fire? (ovvero Che fare quando il mondo è in fiamme?) in uscita il 9 maggio con Cineteca di Bologna e Valmyn in collaborazione con MYmovies.it.
Un film tanto vero e pericoloso che durante le riprese a New Orleans – in un momento molto caldo per gli scontri razziali, in seguito alle uccisioni di Alton Sterling e Philando Castile per mano degli agenti – la polizia ha tirato dei proiettili anche verso la troupe. “Ci siamo spaventati, mentre per i nostri protagonisti, che convivono ogni giorno con la minaccia della violenza, tutto ciò è quasi consueto”.
“Al di là del cinema, questa è vita, è cinema-vita, una cosa grossa”, chiosa il regista. Che ha intrecciato nella narrazione, rigorosa e quasi ipnotica, diverse storie e personaggi: la carismatica Judy è la discendente di una famiglia di musicisti e gestisce il bar Ooh Poo Pah Doo ma l’aumento del canone d’affitto in seguito alla gentificazione del quartiere di Tremé, la costringe a sloggiare. Ronaldo e Titus sono due fratellini allevati da Ashley, una donna single (il suo uomo è in carcere) che fa di tutto per tenerli lontani dai guai. Chief Kevin è un discendente dei neri e dei nativi americani, che accolsero gli africani dopo l’abolizione della schiavitù nelle loro riserve. Kevin è impegnato tutto l’anno nella preparazione della parata del Mardi Gras, il carnevale molto sentito da queste parti in cui vengono travasate tradizioni identitarie ancestrali. Infine c’è un gruppo di Black Panther si batte contro le ingiustizie e inneggia all’autodifesa per le strade di Baton Rouge: ed è la prima volta che il movimento ha accettato di essere filmato, perché in precedenza temevano di essere strumentalizzati. Il film, prodotto da Okta, Pula e Rai Cinema, sarà in sala con Cineteca di Bologna e Valmyn.
Da cosa è partito per questo film, che prosegue la sua esplorazione dell’America profonda?
Nei miei film precedenti avevo raccontato storie del Sud che si sono svolte in forme inaspettate sotto i miei occhi. Ho documentato i semi della rabbia reazionaria e anti-istituzionale – la rabbia che ha portato alla presidenza di Donald Trump – e che erano stati già piantati anche se in pochi se ne erano accorti. Questa volta ho voluto scavare alle radici della diseguaglianza sociale concentrandomi sulla condizione degli afroamericani. Siamo riusciti ad avere accesso a quartieri e comunità di New Orleans off limits per i più. Mi sono reso conto che la maggior parte delle persone era stata segnata da due eventi drammatici: le conseguenze dell’uragano Katrina nel 2005 e l’uccisione di Alton Sterling per mano della polizia nel 2016, due eventi riconducibili entrambi alle disparità sociali ed economiche, al forte razzismo endemico.
Crede che la situazione sia peggiorata con la presidenza Trump?
Sento la necessità di dare due diverse risposte a questa domanda. Dal punto di vista dei bianchi le cose sono cambiate in peggio, ma per i neri non è così, la violenza razzista è sempre esistita, il KKK c’è sempre stato, il padre di Trump ne era membro. Anzi, omicidi e abusi contro gli afroamericani sono persino aumentati durante la presidenza Obama. E poi Trump non viene dal nulla, dà voce a un pensiero comune contro gli immigrati, è la bocca della verità. In futuro la partita si giocherà sull’astensione dei giovani e sul voto dei latinos.
L’Italia attuale è sempre più spesso contagiata da un clima di violenza razziale.
In America il razzismo è uno tsunami, In Italia ci sono piccole onde che possono crescere. Ho visto insofferenza e maltrattamenti verso i Vu cumprà anche tanti anni fa, quando ancora vivevo in Italia, sulle dolci sponde dell’Adriatico.
Il film si basa su una qualche forma di scrittura?
Non c’è sceneggiatura e non ci sono note di regia, anche per questo è stato molto difficile da finanziare, nonostante come autore io abbia raggiunto un certo prestigio. La scrittura in questo caso è montaggio, un lavoro enorme su 180 ore di girato, di cui è autrice Marie-Héléne Dozo, è lei la mia “sceneggiatrice”. Come dice Gianfranco Rosi: ci sono quei magici momenti del documentario in cui la realtà sembra scritta.
Cosa l’ha sconvolta o sorpresa maggiormente durante le riprese?
Innanzitutto devo dire che io faccio film per conoscere e apprendere cose che non conosco bene o non conosco abbastanza. Quello che mi ha più colpito è la diversa percezione della violenza: questi ragazzi, come Ronaldo e Titus, possono convivere con una violenza, che per noi è insopportabile. Io non sono abituato e camminavo strisciando a terra per evitare le pallottole, loro ci fanno i conti ogni giorno.
Si sente vicino al lavoro di Spike Lee che ha dedicato il suo ultimo film proprio a un episodio della storia del KKK?
No, c’è troppa distanza. I bianchi non hanno ancora pagato dazio, come si dice negli Usa. La sua voce parte dall’interno, la mia viene da una crisi di coscienza e di identità. Io parlo a spettatori bianchi ed europei. Non potrei mai pretendere di essere “vicino” a Spike Lee. Però spero che il mio film susciti un dibattito sulle politiche discriminatorie e i crimini motivati dall’odio.
Che strada intravede, se ce n’è una, per una soluzione della questione razziale?
I miei figli sono giallognoli, figli di un italiano e una filippina, e sono cosciente di non averli messi al mondo su un terreno fertile. La divisione esiste. Non possiamo buttare una gettata di cemento su fondamenta così fragili. La società dei bianchi è diversa e lo dico come padre oltre che come osservatore.
Il film uscirà negli Stati Uniti?
E’ una questione delicata, ci stiamo lavorando, ma va ponderata bene.
Da cosa viene il titolo?
Da uno spiritual di due secoli fa, “se il mondo è in fiamme, l’unica cosa da fare è fuggire”. Per gli afroamericani la temperatura delle fiamme è molto più alta che per noi bianchi e non c’è riparo. Da sempre vivono le pene dell’inferno.
La musica ha un ruolo molto importante nel film.
Sì, infatti era nato come progetto sulla musica, un tempo baluardo inespugnabile dei neri d’America, poi espropriata dai bianchi che si sono appropriati del blues.
Perché il bianco e nero?
Per dare equilibrio estetico alle diverse storie che non convergono a livello drammaturgico e che sono state girate in momenti diversi del giorno. Inoltre il bianco e nero mette in chiaro che questa non è la mia storia, è un farsi da parte perché il colore è invasivo.
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