VENEZIA – “Abbiamo fatto una commedia che amiamo molto, lo ritengo il mio film più maturo e riuscito. Se qualcuno lo contesta, pazienza, sappiamo che ci sono state anche risate e applausi a scena aperta durante la proiezione. Abbiamo cercato di raccontare una storia con un ventaglio di emozioni il più ampio possibile, le speranze e lo scoramento di questi tempi, e siamo convinti del risultato. Trovo che essere piazzati in concorso sia, da parte del Festival, un bell’attestato di fiducia in un momento secondo me molto buono per il cinema italiano”. Così Roan Johnson risponde ai detrattori, coloro che hanno gridato allo scandalo perché la sua commedia Piuma è sembrata inadatta alla competizione di una Mostra d’arte cinematografica. Eppure il film, prodotto da Palomar e Sky, in sala dal 20 ottobre con Lucky Red, è una commedia ben scritta e tutt’altro che superficiale che attraverso la vicenda della gravidanza inattesa di due liceali, fotografa una società italiana incasinata e confusa, dove alla lotta di classe si è sostituita la lotta tra le generazioni.
La dolce e concreta Cate (Blu Yoshimi) e l’imbranato ma solare Ferruccio detto Ferro (Luigi Fedele) aspettano una bambina. Contro il parere di tutti vogliono tenerla e hanno anche deciso che la chiameranno Piuma. Ma, durante i nove mesi della gravidanza, si dovranno confrontare non solo con le proprie insicurezze – gli esami di maturità da preparare, un viaggio in Marocco a cui rinunciare, le tentazioni inevitabili – ma anche con i casini delle rispettive famiglie. Cate vive con il padre separato (Francesco Colella), un tipo senza arte né parte che si è fatto lasciare dalla moglie rumena e che al duro lavoro preferisce le scommesse sui cavalli, Ferro ha un padre scorbutico che sogna solo di comprare un casale nella natìa Toscana (Sergio Pierattini), anche perché considera la moglie (Michela Cescon) troppo comprensiva e indulgente. Infine c’è un nonno invalido (Bruno Squeglia) e una cugina fisioterapista piuttosto alternativa (Francesca Turrini). Abbiamo intervistato Roan Johnson, al suo terzo film dopo I primi della lista e Fino a qui tutto bene.
Da cosa nasce l’idea del film?
Io e la mia compagna, Ottavia Madeddu, quasi quarantenni, avevamo l’età per fare un figlio, ma la cosa ci faceva tremendamente paura. Una cosa tanto naturale è diventata praticamente impossibile. Fare un figlio, in questo paese, è considerato non l’inizio di una nuova vita ma la fine della precedente, gli aperitivi, i viaggi, la spensieratezza. Allora, un po’ per esorcizzare questo terrore, abbiamo deciso di scrivere una commedia ma abbassando molto l’età dei protagonisti. E ci siamo riusciti: oggi abbiamo un figlio, Jacopo, e aspettiamo il secondo.
E qual è stata la chiave che avete scelto?
Volevamo raccontare lo scombussolamento di due famiglie che alla fine si ricompongono con un diverso equilibrio e la consapevolezza che non è tutto rose e fiori e che ci saranno altre difficoltà nella vita. Ma volevamo farlo in modo leggero e autoironico.
Vi sentite a vostro agio in concorso o pensate che questa collocazione possa attirarvi qualche critica di troppo?
Essere in concorso è una sorpresa meravigliosa. Per una commedia è un caso più unico che raro, ma la mia speranza è che le commedie italiane, che stanno uscendo dal torpore del cinepanettone, possano avere finalmente la stessa dignità degli altri generi. E’ ora di sdoganare la commedia, un genere che ci hanno invidiato in tutto il mondo e che mi hanno insegnato al Centro sperimentale Francesco Bruni e Paolo Virzì che a loro volta avevano imparato da Furio Scarpelli. La grande tradizione della commedia all’italiana ci ha insegnato a prenderci in giro e possiamo esserne orgogliosi. E’ un antidoto ai tempi in cui viviamo. Un po’ di ironia e autoironia in più ci farebbe molto bene. Chi grida “vergogna” forse si vergogna di aver riso, perché la risata è considerata un tabù per un film d’autore.
A un certo punto nel film Stella dice che 18 anni è l’età giusta per fare un figlio ed è la società a sbagliare rimandando questa scelta. Non può non venire in mente il fertility day. Lei cosa ne pensa?
La maternità al giorno d’oggi è un paradosso. Per milioni di anni fare figlioli è stata la cosa più naturale, oggi non è più così per paure e desideri molto personali. Credo che il percorso di ognuno vada rispettato. Nel film ci sono varie sfaccettature: c’è chi parla bene ma all’atto pratico non ha figli, ci sono i genitori che non sono pronti a fare i nonni, c’è chi ancora non sa fare il padre. Tutte queste differenze portano avanti la drammaturgia della commedia e creano comicità. Ma io concordo con Ferro, la scelta è della donna e lui può solo starle accanto.
Alla fine la famiglia sembra essere l’unica soluzione a tutti i mali della società, dalla disoccupazione alla difficoltà di trovare casa.
Sì, ma è un nuovo modello di famiglia più confusionaria di quella tradizionale. Persone separate, divorziate o in procinto di lasciarsi ma non per questo incapaci di confrontarsi con le proprie passioni e desideri. Con Ferro direi che il film è con il cuore dalla parte giusta.
Gli attori sono tutti molto bravi, non solo i due giovani protagonisti, ma anche gli adulti. Tra l’altro è un cast che si differenzia dalle scelte consuete della commedia contemporanea che ruota attorno a un pugno di interpreti sempre uguali.
Per come è strutturato il film, con lunghi piani sequenza che contengono battute comiche, scene emozionanti, conflitti, momenti magici, avevamo bisogno di bravissimi attori. E devo dire che Palomar e Sky mi hanno lasciato libero di scegliere quelli giusti. Nessuno era mai stato in concorso a Venezia. Sergio Pierattini l’avevo conosciuto per I primi della lista, ha un potenziale immenso, un carattere sempre pronto a esplodere, ma quando si incazza fa ridere. Francesco Colella, Michela Cescon, Francesca Turrini vengono tutti dal teatro e sono pronti a gestire la continuità.
E i due giovani protagonisti, Luigi Fedele e Blu Yoshimi?
E’ stato il casting più difficile che abbia mai fatto, circa 700 provini e non trovavo il protagonista maschile. Tanto che avevo deciso di alzare l’età dei personaggi e modificare il copione, troppo complesso per un ragazzo di quell’età. E’ stato Carlo Degli Esposti a insistere. Poi, per caso, ho trovato Luigi Fedele che aveva 17 e mezzo. Ai due ragazzi ho chiesto di contribuire alla sceneggiatura portando il linguaggio dei giovanissimi, il loro modo di parlare e di comunicare. Ho scoperto che questi ragazzi, questi millennials, sono intelligenti e maturi, io ero molto più scemo di loro a 18 anni. Il tema del film è l’assunzione di responsabilità che si può vivere con tutte le contraddizioni e le difficoltà dei nostri tempi, magari si può provare a volare con l’incoscienza del sogno.
Com’è nata la storia della paperella che naviga nell’oceano che è diventata il simbolo del film?
Ho capito che quella storia raccontava un pezzo importante del nostro film: una paperella che esce dalla vasca da bagno e diventa libera può solcare i mari di tutto il mondo.
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