CANNES – Leonard (Richard Gere) vuole una testimone, e la testimone deve essere Emma (Uma Thurman), sua moglie, la sua ultima moglie. Lui, documentarista di successo, agli sgoccioli dell’esistenza perché mangiato dal cancro, concede un’ultima intervista, ma la condizione è – appunto – che sia presente, “occhi negli occhi”, la sua compagna di vita. 25 domande e un ultimo attimo di celebrazione, questa dovrebbe essere la modalità, la finalità.
Richard Gere, va ammesso subito, assorbe tutto il patimento della malattia terminale e le ultime sfumature del ruggito finale sul volto, una sindone della fine, tutta concentrata lì nella mimica del viso e nella profondità dello sguardo, tra guizzi mordenti e rarefarsi dell’esistenza.
Per l’attore americano: “Schrader sa giocare con i personaggi complessi, abbiamo discusso su dove volesse andare a parare. Mi sono affidato a lui e mi sono adattato alla malattia, al suo approssimarsi alla morte. La memoria è qualcosa che ha dei limiti, ma anche degli effetti su chi sopravvive. Paul ha portato dentro al buio, che la memoria può svelare, toccando il senso di colpa più profondo”.
Per il regista, Fife: “ha fatto cose terribile, ma anche scelte difficili”.
L’intervista nel film è – nell’intenzione personale di Leonard Fife – un testamento emotivo? Forse, a suo modo. Una confessione necessaria prima di morire? Forse, a suo modo. Il bisogno di alleggerirsi la coscienza? Forse, a suo modo. Oh Canada di Paul Schrader (che con Gere ha girato anzitutto il mitico American Gigolò, 1980) gioca con una coreografia narrativa interessante, che intreccia presente (l’intervista) e passato (il racconto che viene svelato nell’intervista), tempo quest’ultimo in cui il personaggio di Leonard prende le sembianze attoriali di Jacob Elordi, ma – a momenti – come fosse un interscambio temporale, morale, spirituale, viene sostituito in scena dal se stesso adulto, anziano: non c’è confusione in questa tessitura – che usa anche il bianco a nero, a tratti – tutt’altro, c’è semmai maestria, c’è un gioco alto di sapienza narrativa e cinematografica, però l’imminenza che Fife a un certo punto confessi… qualcosa che sia davvero… detonante non accade, mai.
Lo spettatore s’aspetta, brama, La confessione maestra, ma il film non raggiunge un climax, perché quello che il vecchio e malato Leonard confessa, alla moglie, e comunque dinnanzi a una telecamera, strumento che rende tutto perenne, non sono verità così scioccanti da poter credere che possano davvero aver l’effetto di una bomba atomica dell’esistenza, nemmeno per Emma, francamente.
Thurman racconta di aver “letto il libro e così imparato a conoscere chi fosse lui. C’era la pressione di ascoltare il passato, dopodiché ho affrontato il personaggio recitando: era interessante l’emozione intellettuale profonda in quella situazione. Mi sono concentrata sulla sceneggiatura, che è stata un binario, per cercare un contatto interiore con Emma. È stato un privilegio lavorare con dei tesori internazionali – come Gere e Schrader – e fare cinema con Paul è incredibile, perché il suo cinema è così vero”.
Con Elordi, spiega Gere: “abbiamo organizzato una lettura dello script per recepire l’atmosfera del film. Jacob mi ha fatto pensare come a un figlio, lui aveva guardato i miei film, soprattutto di debutto; la vera sorpresa è stato il lavoro sull’accento, con un tale calore nell’intenzione: ha fatto un lavoro molto duro”.
Tornando alla visione, c’era una volta… il 1968, quando Leonard, sposato con Alicia in dolce attesa, e già papà del piccolo Colman, viene colto di sorpresa dalla proposta del suocero, che gli offre di essere il Chief Executive Officer dell’azienda farmaceutica di famiglia: proprio il giorno seguente Fife – aspirante scrittore – ha già in programma un viaggio, da cui non tornerà mai più indietro; “lui era partito con una giacca color khaki e non l’ho più visto per 30 anni”, dice infatti la voce narrate del film, proprio quella del figlio, che solo tre decenni più tardi tenta di avvicinarlo, respinto, perché Leonard afferma di non avere nessun figlio.
Nell’intervista, Fife confessa anche di una precedente storia, con tale Amy, anche lei rimasta incita – ecco, è forse questa l’unica parte della sua biografia che sembra arrivare davvero sconosciuta a Emma -, dopo cui c’è stata Amanda, e infine Alicia, appunto. Tutte compagne con la “A” come lettera iniziale del nome, commenta lui. Chissà.
Comunque, Schrader sceglie di porre Uma Thurman in una posizione presente di apprensione e pena, certamente è dilaniata dallo stato del marito e più volte cerca di interrompere l’intervista, forse anche mossa da qualche afflato di gelosia verso il passato, adducendo adesso che lui sia disorientato da uno stato di confusione, ma così non è nell’assenza: Leonard è lucido, a intermittenza spossato dai farmaci sì, ma consapevole.
“Ho giocato con questo personaggio. Mio padre, che è mancato, viveva con me e ho visto il manifestare della fine, qualcosa di fluttuante, così lo script mi sono reso conto mi rivelasse la verità lineare del tempo, il confronto con la vita”, commenta Richard Gere.
Oh Canada – titolo che si spiega nel finale, quando risuona l’inno nazionale canadese e sulle labbra di Fife si legge l’ultimo respiro su queste parole – ha adattato il bestseller di Russell Banks, Foregone, scomparso nel 2023: Leonard Fife per Schrader è un personaggio di finzione, un americano di sinistra che nel Canada aveva visto il rifugio per scampare alla leva e alla chiamata in Vietnam, fuggendo “da codardo” dal suo Paese, come si ascolta. Ecco, forse, la vera e più discutibile confessione.
Rispetto a questa questione, sollecitato a rifletterla anche pensando alla realtà delle guerre correnti, Gere dice che “un attore è un attore, come uno scrittore, come un ballerino: certo ci facciamo delle domande, viviamo tutti nella stessa situazione globale. L’attore rappresenta la condizione umana, anche con realismo, e penso che siamo tutti nello stesso viaggio su questa terra, siamo tutti umani. Questo film rappresenta gli abitanti del mondo e il mistero della vita”.
E, chiosando sulla questione della leva mancata e della scelta di non prendere parte a una guerra, Schrader commenta che “adesso gli ucraini partono per una guerra giusta, mentre quella del Vietnam, della mia generazione, non era giusta, non sono paragonabili”.
Insomma, il film è una narrazione tra destino schivato e destino scritto da sé, dove la codardia statunitense si modifica in eroismo documentarista canadese, tale è l’ammirazione del Paese degli aceri per quest’uomo. È la storia di un mito umano che si smonta da sé, così come s’era costruito: artefice del proprio destino, Fife usa il linguaggio che l’ha consacrato per cercare l’apice della verità, laddove, si sa, il cinema è spesso zona di comfort della finzione; e anche su questo livello Schrader potrebbe aver riflettuto per questo racconto, tanto che la visione fa domandare se il film non sia un bisogno personale dell’autore – e perché no anche dell’attore – di usare questa arte, adesso, superata la settantina (74 anni Gere, quasi 78 il regista), per cercare di restituire davvero se stessi.
Oh Canada, con il titolo I tradimenti, verrà distribuito in Italia da Be Water Film in collaborazione con Medusa Film.
IL PROSSIMO FILM DI PAUL SCHRADER: NON COMPOS MENTIS
Il regista, in occasione della conferenza dedicata a oh Canada, ha detto che sta lavorando al prossimo film, un noir, dal titolo Non compos mentis, sulla tematica dell’ossessione sessuale. Il cast non è ancora stato composto.
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