VENEZIA – Una tazza di tè per riprendersi dagli eccessi di una festa di compleanno è stata la fedele compagna del neo-75enne Richard Gere, durante l’ultima Cartier Masterclass a Venezia 81. Tra un sorso e l’altro – da perfetto british man – il divo ha parlato del rapporto tra attore e collaboratori creativi, coloro che rendono possibile il sogno del cinema.
“Adoro lavorare a teatro, stare con altre persane e lavorare su un progetto. Per i film questo aspetto è ancora più importante. – esordisce l’attore – La luce, il suono, la musica. È incredibile il modp con cui la nostra mente crea delle storie in cui noi crediamo ciecamente. Questa capacità di creare universi mi ha sempre molto affascinato. Ho sempre cercato di collaborare con gli altri, consapevole del fatto che ci vogliono tante persone per creare qualcosa di bellissimo”.
Il primo argomento affrontato è quello della fotografia, elemento cruciale ne I giorni del cielo di Terrence Malick, il primo ruolo da protagonista di Richard Gere, che ha dato il via a una carriera straordinario: “Venivo dal teatro ed eravamo molto orgogliosi di lavorarci. Snobbavo le persone ricche che fanno film, poi sono diventato uno di loro” commenta ironicamente.
“Non vedo I giorni del cielo da 34 anni, allora ne avevo 26, ero poco più grande di mio figlio Homer, che è qui in sala e che ha appena iniziato la sua carriera da attore. È molto bravo. – racconta – Malick voleva usare soprattutto luce naturale, era molto espressionista e Néstor Almendros, il direttore della fotografia, era un genio. La luce peggiore del giorno va dalle 12 al 14, la luce è perpendicolare e per questo a quell’ora si girano le scene di interni. In quell’occasione abbiamo girato all’alba e al tramonto Hai circa 20 minuti o mezzora di golden hour e poi tutto cambia. Abbiamo girato moltissimo in questa ora magica perché campi erano illuminati di una luce dorata”.
Per affrontare l’aspetto musicale, si ricorre a quello che è forse il suo film più popolare: Pretty Woman, una commedia che “era iniziata come un film molto piccolo. Non credevamo che qualcuno gli avrebbe mai dato attenzione… e invece”. La scena che è stata mostrata è quella in cui Edward suona il pianoforte attirando le attenzioni di Vivian. “Stavo interpretando un personaggio che non era stato delineato molto bene. Era solo bel vestito e un bel taglio di capelli. – rivela Gere – Ci chiedevamo cosa si fa in albergo la sera tardi: io soffro di jet lag e sto sveglio tutta la notte. Di solito vado al bar e cerco un pianoforte da suonare. È stata una scena improvvisata, il regista mi ha chiesto di suonare qualcosa di malinconico che mostrasse la vita interiore del mio personaggio, in modo tale che lei potesse vederlo con occhi completamente diversi. Il personaggio cambia quando sta dietro la scrivania o dietro un pianoforte”.
Poi è il momento più atteso, quello relativo al doppiaggio che vede salire sul palco Mario Cordova, voce storica di Gere, il quale ammette: “Ha una voce molto migliore della mia”. “Conosco ogni centimetro della sua pelle. – esordisce il doppiatore – Non tutto, insomma, diciamo del viso, che è poi l’espressione dell’animo. Conosco il suo modo di guardare, certe chiusure degli occhi che fa solo lui e che sono straordinarie. Ogni volta è come entrare nel suo corpo e nella sua voce, come prendere la faccia dell’attore e mettersela addosso”.
Tra le clip mostrare, una del film del 2014 Gli invisibili, in cui Richard Gere interpreta un senza tetto: “Incredibilmente, vestito come barbone, nessuno prestava attenzione a me a NY: è stata un’esperienza metafisica. Lo abbiamo girato come un documentario, alla continua ricerca dell’onestà”. Un film che ha colpito anche Cordova, che ha da sempre uno sguardo privilegiato sulla carriera di Gere: “Nel corso degli anni è passato da essere un sex symbol a fare un film così. Richard oltre a essere un bravissimo attore e un figo, è un uomo che ha una testa profonda. Un uomo impegnato”.
Infine, si passa all’aspetto più delicato: il rapporto con il regista. In particolare, con Akira Kurosawa, uno dei più grandi maestri della storia del cinema, con cui l’attore ha collaborato in occasione di Rapsodia in agosto, del 1991. “Tutti lo trattavano come una divinità. Io provenivo da un mondo diverso, in cui gli attori parlano con i registi, cosa che non accade in Giappone, soprattutto con Kurosawa. Una volta ho detto di avere un’idea e tutti erano sconvolti. Kurosawa è venuto da me, ha ascoltato la mia idea, mi ha fissato… e poi si è messo a ridere. Da quel momento abbiamo avuto un rapporto che gli altri attori non potevano neanche immaginare. Venivano da me piangendo perché loro non potevano fare proposte a Kurosawa ma io le potevo fare anche per loro”.
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