“La svolta nella mia carriera? Nel 1966 con La Bibbia, il film di John Huston prodotto da di Dino de Laurentiis. Nel Sunset Boulevard di Los Angeles venne affisso il mio manifesto 10×5 metri”. Così Renato Casaro, maestro dell’illustrazione cinematografica nato a Treviso 81 anni fa, al quale la città di Cremona dedica una mostra personale – oltre 100 tra manifesti di film, disegni e locandine originali – “Per un pugno di colori”, curata dall’Associazione culturale Tapirulan, che s’inaugura il 3 dicembre alle ore 17.00 nelle sale espositive di Santa Maria della Pietà.
Oltre mille sono le immagini realizzate da Casaro, a partire dall’inizio degli anni ’50, per illustrare quasi tutti i western di Leone, i film di Bernardo Bertolucci, Monicelli, Schwarzenegger, Stallone, Lelouch, Coppola, Besson, Zeffirelli, di Bud Spencer e Terence Hill e altri ancora Una sezione è dedicata a Ugo Tognazzi, nativo di Cremona, con i manifesti di alcuni film da lui interpretati quali Amici miei, Il vizietto, L’anatra all’arancia, Romanzo popolare, La sceriffa, Nell’anno del Signore. L’esposizione sarà aperta al pubblico fino al 29 gennaio 2017; successivamente sarà visitabile negli spazi delle Raccolte Frugone dei polo dei Musei di Genova-Nervi.
Sempre a Santa Maria della Pietà viene ospitata “CIAK – Mostra internazionale di illustratori contemporanei”, che si compone di 48 illustratori selezionati a seguito del concorso (12 dei quali firmeranno anche il calendario delle edizioni Tapirulan per il 2017), le cui opere rappresentano la scena di un film cui sono particolarmente legati.
Casaro, come è nata la passione di illustratore per il cinema?
Molto giovane a 18 anni, quando ha imparato il mestiere a Treviso in una agenzia tipografica, la Longo e Zopelli. Sono un autodidatta: disegnare manifesti cinematografici è una professione molto particolare che s’impara da soli, studiando e rubando i segreti dei maestri.
All’inizio quali sono stati i suoi maestri, italiani e stranieri?
Gli illustratori americani di “Saturday Evening Post”, come Norman Rockwell e altri. Ciriello, de Seta per gli italiani.
Si può parlare di una scuola italiana del manifesto cinematografico?
Assolutamente la più prolifica e innovativa riconosciuta scuola nel mondo: Ballester, Martinati, Capitani, Ciriello, Brini e altri.
A quale manifesto è molto affezionato e perché?
A tutti come figli, ma se proprio devo scegliere: Il tè nel deserto per la sintesi, L’ultimo imperatore per il grande impatto mistico, di composizione e di atmosfera, premiato da ‘Hollywood Reporter’ come miglior manifesto mondiale 1988.
Quale era il primo obiettivo disegnando un manifesto che viene visto dal possibile spettatore di quel film?
Sintesi e stimolare la curiosità del pubblico.
Il disegno cambia secondo il genere del film (western, drammatico, commedia)?
Assolutamente, la capacità di adattare lo stile al genere è importantissimo.
Quanti schizzi, bozzetti preparatori di solito preparava?
Diversi schizzi, fino a una mia selezione di 2/3 da presentare al committente.
Come avveniva la fase di preparazione di un manifesto?
Leggevo il copione, vedevo i giornalieri in moviola e il film in post produzione. Possibilmente incontravo il regista, fonte spesso di stimolo, e sempre il produttore, in quanto committente.
Con quale regista, produttore si è trovato a lavorare bene e perché? Ci racconta qualche aneddoto di questa collaborazione?
Direi generalmente tutti, perché sapevano che davo il meglio, ma Leone, Bertolucci, Tornatore davano il giusto feeling. Per il film Les uns et les autres Lelouch era molto restio a cambiare i titoli, per l’Italia era impossibile la traduzione. Così preparai il bozzetto definitivo (molto efficace) completo del titolo Bolero e una volta visto il regista ne fu così entusiasta da approvarlo anche per altri paesi.
Con quale regista, produttore si è trovato a lavorare male e perché?
Male non direi, avevo la piena stima. Fassbinder voleva una Lili Marleen nel contesto nazista, noi volevamo una storia senza simboli di regime con disappunto del regista.
Quando ha interrotto la professione e perché?
Con l’avvento fine anni ‘90 del digitale, non era più per me. Era la fine di una stagione esaltante, una scelta dovuta e senza rimpianti.
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