TORINO – La domanda potrebbe essere imbarazzante per molti. Cosa fai quando la persona a cui vuoi dare comincia a prendere? E’ il succo del film di Ivano De Matteo, La bella gente, un apologo sulla cattiva coscienza di certi intellettuali di sinistra, un film sull’ipocrisia della borghesia progressista. “Il titolo è ironico, quando qualcuno si reputa una bella persona, io mi spavento.. come quando qualcuno beve solo acqua, i falsi moralisti si limitano a sventolare le loro bandiere. Molto meglio il cinismo di chi non si nasconde dietro agli alibi e così viene tacciato di qualunquismo”. Così il regista, autore di documentari interessanti (Codice a sbarre, Barricata San Calisto, Fermata Pigneto) e anche di un paio di film (Ultimo stadio e un episodio della serie tv Crimini), un romano doc con la schiettezza aggressiva dei trasteverini vecchio stampo e una vis polemica che anche stavolta lo porta ad accusare le storture del sistema cinema. “Avevamo un distributore, Stefano Dammicco, grazie a lui abbiamo ottenuto il finanziamento pubblico, abbiamo girato in 4 settimane con meno di un milione di euro, senza tanti fronzoli, senza neanche le roulotte. Poi il distributore è sparito. Ora usciamo in Francia, grazie al Festival di Annecy, dove il film ha vinto due premi, ma non in Italia. Eppure basterebbero dieci copie, poi sarebbe il pubblico a giudicare. Così mi sento un pregiudicato. E anche questa è ipocrisia: un film coreano con sottotitoli in turco, trova la sua strada nelle sale, un film italiano che non sia un panettone no”.
Eppure il potenziale commerciale per il film (a Torino in Festa mobile) non mancherebbe. A partire dalla presenza di Elio Germano, nel ruolo di un figlio di papà che prima seduce e poi pianta in asso senza neanche salutarla la giovanissima e dolce prostituta ucraina che i suoi genitori hanno “adottato” durante l’estate. Siamo infatti nella campagna umbra, nel casale ristrutturato di una coppia di cinquantenni, lui architetto (Antonio Catania), lei psicologa (Monica Guerritore) impegnatissima nel volontariato con le donne maltrattate. Un giorno la signora s’imbatte in Nadja (Victoria Larchenko), una ventenne costretta a fare la vita lungo la statale da un pappone manesco e brutale. Come raccoglierebbe un cane randagio, se la porta a casa, la riveste e la tratta quasi come una figlia, destando l’ironia dei vicini, arricchiti e volgari (Iaia Forte e Giorgio Gobbi), finché il figlio Giulio, che studia a Londra e dovrebbe sposarsi con la ricca e viziata Flaminia (Myriam Catania), non viene a trovarli e si invaghisce della ragazza. Immediatamente scattano gli anticorpi e la famigliola si ricompatta, ributtando sulla strada l’intrusa, colpevole di aver anche solo immaginato un riscatto sociale.
Racconta De Matteo: “Quando ho letto questa sceneggiatura, scritta dalla mia compagna Valentina Ferlan, ho avuto una sensazione di forte fastidio. Eppure era una storia semplice, senza grandi drammi, senza eroi o mascalzoni, buoni o cattivi, senza sangue o violenza, ma è una storia che parla di qualcosa che ci riguarda tutti, la difficoltà di far cadere le barriere e i pregiudizi. Chi nasce dall’altra parte, chi ha subito violenze e ingiustizie nella vita, fatica ancora molto, anche nel nostro mondo così liberale e democratico, a passare dalla parte dei vincitori. Ognuno di noi si circonda solo di gente della sua stessa specie”. Per Elio Germano, il film è anche l’occasione per riflettere sull’egoismo feroce dei trentenni. “Trovo politico il racconto trasversale della nostra epoca, l’individualismo estremo, la necessità di appagare i propri bisogni, che sono la scopata, lo stipendio e la bella macchina. Questi obiettivi ci portano a distruggere le istanze di una vita comunitaria che non esiste più, perché la nostra società è in decomposizione”. Da ultimo resta il timore di una strumentalizzazione da destra. Ma Ivano De Matteo smentisce: “E’ chiaro che questo non è un film fatto da una persona di destra, però voglio dire una cosa: se porti la bandiera, portala fino alla fine”.
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