TORINO – L’immensa tragedia della pedopornografia prende vita e genera concreta inquietudine nel film di Isabella Sandri, Un confine incerto, presentato al Torino FF in After Hours. Secondo l’ultimo rapporto annuale di INHOPE, relativo al 2018, 226.999 immagini e video sono risultati illegali, con un aumento percentuale del 51% rispetto al 2017. Il 58% è stato rimosso da Internet in meno di 3 giorni. Il 91% coinvolgeva bambini e bambine al di sotto di 13 anni; l’80% delle vittime era costituito da bambine e ragazze; l’84% del materiale risulta ospitato su servizi di image hosting.
Al destino tragico di questi bambini e adolescenti, a volte vittime inconsapevoli degli orchi, ci avvicina la narrazione che si muove su due linee: a Roma l’agente della Polizia Postale Milia Demez (la rumena Cosmina Stratan, premiata a Cannes per Oltre le colline) indaga su una rete di pedofili. Giorno e notte sta incollata al video terminale catalogando immagini dal web e prendendo parte a chat di pedofili sotto pseudonimo. Intanto in un camper parcheggiato nella Foresta Nera uno strano ragazzo, Richi (Moisé Curia), si prende cura in qualche modo di una bambina che chiama “Sputo” (Anna Malfatti): la considera la sua fidanzata e ama filmarla e fotografarla. Potrebbe essere lei Magdalena Senoner, la piccola scomparsa qualche tempo prima in Val Gardena. Come Maddalena, anche Sputo conosce il ladino, una lingua rarissima, parlata ormai da un ristretto gruppo di persone nel Sud Tirolo e che sarà decisiva nell’indagine. Mentre la psicologa della polizia (Valeria Golino) cerca di aiutare Milia, sempre più coinvolta e turbata.
“Per approcciarmi a questo tema – ha spiegato Isabella Sandri – avevo bisogno di documentarmi sulla realtà, il documentario è il fondamento del mio lavoro e ci ho messo moltissimo tempo a prepararmi. Save the Children ha un progetto di lotta alla pedopornografia che unisce 45 paesi. Ci sono paesi anche in Europa che permettono lo web hosting di immagini di questo tipo. Immagini terribili, criminali, perché queste persone arrivano ad uccidere. Prima del 2011 c’era una black list di siti, adesso c’è il deep web dove si trovano cose assurde, inimmaginabili”.
L’idea del film è nata dal ritrovamento di una bambina che si pensava fosse Denise Pipitone. Un milione di bambini l’anno scompaiono nel mondo, in Italia sono 10mila. “In questi ultimi quindici anni – prosegue la regista spesso attiva in coppia con il marito, il regista e produttore Giuseppe Gaudino – ho realizzato storie di bambini e adolescenti: dai profughi palestinesi in Libano agli orfani delle ‘bombe intelligenti’ in Afghanistan, dai figli dei lavoratori delle maquilas messicane, alle bambine sopravvissute alle stragi in Ruanda, o ai piccoli indios sterminati dall’arrivo dei bianchi nella Terra del Fuoco e in Patagonia. E mi sono chiesta: qual è una delle crudeltà più gravi che continua a esistere in questa nostra epoca, uno dei mali peggiori? Forse portare via il futuro all’essere umano, la forza di credere in sé. Uccidere la sua forza ma anche – forse peggio – la sua parte tenera. Uccidere la tenerezza che l’essere umano ha dentro: il bambino”.
Il film, prodotto dalla Gaundri con Rai Cinema e Indi Film, ha il sostegno del MiBACT e di IDM Film Fund & Commission dell’Alto Adige. E proprio in Alto Adige, a Ortisei, si trova la casa in cui nel film viveva la bambina rapita, che nella realtà è la casa della scrittrice e linguista Frida Piazza riferimento importante per la cultura ladina. “La grande scultura del Cristo addossata sul muro della casa – racconta la regista – mi fissava ogni volta che ci passavo davanti. Il prato di fianco era riuscito a sopravvivere ai vari attacchi edilizi. In quella casa avevano vissuto lo scultore Luis Piazza e sua moglie Frida”.
Nel film non mancano le immagini crude, come quel video in cui la piccola è avvolta dentro uno spesso cellophane che sembra soffocarla. “Volevo che fosse lo spettatore a giudicare – dice ancora l’autrice – ecco perché tutti gli sguardi sono a filo di macchina. Come In Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello, quando il personaggio va in mezzo al pubblico e lo chiama dentro, lo spettatore si sente a disagio perché si parla di temi tabù come l’incesto”.
E dunque per la delicatezza dell’argomento non sono mancati problemi produttivi. “Al MiBACT l’hanno inizialmente bocciato. I tedeschi sono stati i primi ad entrare insieme a Eurimages. Si poteva fare un film di genere, avrei potuto edulcorare tutto, ma volevo capire”.
Interviene il giovane Moisé Curia: “Richi è un bambino anche lui, cerca nella bambina una sorta di via di fuga. Ma poi impazzisce, perde la cognizione delle cose”. E assicura che la piccola protagonista è stata sempre protetta sul set. “C’è stato un rapporto molto bello con la bambina e con i suoi genitori che ci hanno sempre seguiti. Un clima di serenità e di gioco”. Infine, sulla scelta inconsueta del ladino. “La mia famiglia va in Val Gardena sin dalla fine dell’Ottocento e il ladino mi è caro, è una lingua misteriosa. Ho voluto raccontare una bambina che scompare da una valle perfetta, da un nido meraviglioso, perché il film parla anche di radici e di perdita delle radici”.
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