PESARO – Con la proiezione di Regalo di Natale (1986) in Piazza del Popolo entra nel vivo la retrospettiva dedicata al cinema di genere italiano. Momenti clou la tavola rotonda di sabato 22 giugno alla Pescheria con la presentazione del volume Marsilio Ieri, oggi e domani a cura di Pedro Armocida e Boris Sollazzo e l’omaggio a Pupi e Antonio Avati, ospiti della Galleria Franca Mancini, con mostra di foto e affollato incontro. Proprio al cineasta bolognese, che al genere deve i suoi inizi con con titoli come Balsamus, Thomas, La casa dalle finestre che ridono, è dedicato nel libro un saggio di Alessandro De Simome intitolato Orrori di provincia e metropolitani. Il cinema di Pupi Avati e Marco Risi.
“Il genere – esordisce Avati che l’anno scorso ha festeggiato i 50 anni di carriera – l’ho sentito mio da molto tempo, anche se rivedendo Balsamus l’uomo di Satana e Thomas e gli indemoniati, che tra parentesi furono due disastri, posso dire che in quei film c’era un’aria sessantottina. I ragazzi del ’68 volevano contrapporsi all’esistente e noi facevamo un cinema di contrapposizioni, nel senso che a metà film lo spettatore si alzava e tornava al botteghino per chiedere indietro i soldi. Io e Antonio eravamo nell’atrio, soddisfatti di aver colpito questa gente che voleva Dino Risi e Mario Monicelli. Producemmo ai tempi un cinema così alternativo, complicato e cervellotico da generare la diffidenza del pubblico verso i prodotti italiani. Prima le sale erano piene. Esserci misurati con opere così presuntuose ed egocentriche ha prodotto danni da cui pochi si sono ripresi. Io, con il tempo, ho capito che questo lavoro si misura anche con il denaro. Molti miei colleghi di allora, non li ho visti più. Altri sono rimasti, come Bellocchio, che con 38 milioni di lire fece un capolavoro come I pugni in tasca“.
Antonio Avati racconta la genesi di Regalo di Natale, che in concorso alla Mostra di Venezia, fece vincere a Carlo Delle Piane la Coppa Volpi. “Nacque come film a bassissimo costo. Venivamo da un insuccesso con un socio, Luciano Martino, e avevamo bisogno di misurarci di nuovo con l’industria. Pupi pensò una storia di un’ora e mezza girata tutta nel salone di una villa delle colline bolognesi. Il set però era a Fregene. C’erano solo dei preamboli sui cinque protagonisti in esterni, poi tutto in interni, per risparmiare. È costato poco ma è andato così bene nella tenitura che ha avuto il biglietto d’oro”.
“Oltre a Haber, Cavina e Delle Piane – dice Pupi – volevamo Jean Pierre Léaud, l’attore feticcio di Truffaut e Lino Banfi, per impressionare Martino con un attore famoso per i film scemi. Léaud aveva già provato i costumi, ma qualche giorno prima delle riprese venne arrestato perché aveva litigato con un vicino di casa che teneva la radio troppo alta rompendogli un vaso in testa. Banfi era una persona molto carina ed eravamo contenti che facesse un film serio e molto duro sul tradimento dell’amicizia, ma ebbe un’offerta da Dino Risi per fare il commissario Lo Gatto e ci abbandonò. Ci trovammo spiazzati e ci venne in mente di puntare su Diego Abatantuono, che allora era famoso per Attila e nessuno voleva più. Addirittura aveva aperto un night club. Lo chiamammo su un vecchio numero di telefono, il numero della sua ex. Rispose per caso perché era andato a recuperare i suoi vestiti mentre lei era al mare. Se non avesse risposto a quella telefonata, la sua vita sarebbe cambiata. Lo dice sempre. Recitò spogliandosi del suo slang da terrunciello, tanto che sul set c’era grande sconcerto e ci volle coraggio per convincere i distributori a prendere un film con lui serio”.
Sui cast inediti, che sono un po’ una cifra degli Avati, racconta un altro aneddoto legato a La seconda notte di nozze. “Per la vedova – racconta Pupi – avevamo pensato a Lisa Gastoni, Stefania Sandrelli o Giovanna Ralli. Tutte attrici straordinarie. Ma volevamo qualcosa di particolare. Una sera al ristorante avevo bevuto un po’ e bofonchiai qualcosa di incomprensibile. Antonio capì Katia. Katia chi? La Ricciarelli! La mattina dopo andammo a Rai Cinema. Avevo talmente paura a dire quel nome… Poi pensai, se ha sposato Pippo Baudo può fare la vedova… Alla fine con questo film ha vinto il Nastro d’argento battendo Mezzogiorno e Buy”.
Intanto sta per uscire in sala, il suo nuovo film Il signor Diavolo, decisamente horror. Un vero ritorno al genere. “Alcuni film di genere sono stati rivalutati successivamente. È successo anche a noi. Bisogna saper dosare la quantità autoriale e la quantità di genere: è il dosaggio che fa la differenza. Con Il signor Diavolo io prometto allo spettatore che avrà paura. Se non lo spavento, ho mancato a quell’impegno”.
Interviene Antonio: “La nostra situazione finanziaria è abbastanza critica. Riponiamo speranze in questo film che deve uscire per una scelta un po’ particolare il 22 agosto. Speriamo bene perché gli incassi di giugno sono inferiori a quelli di giugno dell’anno scorso, tocca sperare che l’estate finisca presto e che a fine agosto piova. Il signor Diavolo comunque rispetta tutte le regole del genere horror”.
In quest’ultimo periodo – dice ancora Antonio che ha prodotto con la DueA, insieme a Rai Cinema e Ruggente Film – la crisi del cinema ci ha toccati. “Ci siamo illusi che lasciando per un po’ il cinema e facendo la tv, le cose sarebbero andate meglio e avremmo pagato un po’ di debiti. Però abbiamo prodotto la fiction come se fosse un film normale, senza fare economie. Una scelta scellerata, anche perché la fiction di oggi si brucia in fretta”.
“Tornare al genere – aggiunge Pupi – è una dimostrazione di umiltà. Nella tv si cerca l’identificazione dello spettatore. Noi abbiamo spaziato in tutti i territori, dal musical con Aiutami a sognare che era un La la land in anticipo, al calcio. Ma quando mi avvicino al Po, alle zone che la modernità non ha sfiorato, ritrovo gli archetipi della mia infanzia: la religione preconciliare, quella del pulpito, con il prete che ti minacciava. E’ un mondo identitario fortissimo da raccontare”.
Il signor Diavolo si svolge nell’autunno del 1952. Nel Nordest è in corso l’istruttoria di un processo sull’omicidio di un adolescente, considerato dalla fantasia popolare indemoniato. Furio Momentè, ispettore del Ministero, parte per Venezia leggendo i verbali degli interrogatori. Carlo, l’omicida, è un quattordicenne che ha per amico Paolino. La loro vita è serena fino all’arrivo di Emilio, un essere deforme figlio unico di una possidente terriera che avrebbe sbranato a morsi la sorellina. Paolino, per farsi bello, lo umilia pubblicamente suscitando la sua ira: Emilio, furioso, mette in mostra una dentatura da fiera. Durante la cerimonia delle Prime Comunioni, Paolino, nel momento di ricevere l’ostia, viene spintonato da Emilio. La particola cade al suolo costringendo Paolino a pestarla. Di qui l’inizio di una serie di eventi sconvolgenti.
“Protagonista è un bambino, Filippo Franchini – racconta Antonio – poi c’è un trentenne con una faccia non italiana, Gabriele Lo Giudice. Quindi Cesare Cremonini e ci sono camei di Lino Capolicchio che fa un prete, Gianni Cavina, Alessandro Haber, Chiara Caselli, Andrea Roncato che abbiamo trasportato dalle macchiette televisive al cinema serio già da qualche tempo.
E il progetto su Dante Alighieri? “Rai Fiction dal 2001 s’è impegnata a fare questo film raccontato dal punto di vista di Boccaccio, in cui lo scrittore del Decamerone, 29 anni dopo la morte del sommo poeta, viene inviato a portare alla figlia monaca di Dante, suor Beatrice, che sta a Ravenna, dieci fiorini d’oro per risarcire il male che i fiorentini hanno fatto al padre. Sarà lui a scrivere la prima biografia dell’Alighieri. Sono passati 18 anni ma il film non si è ancora fatto, mentre adesso stanno preparando la vita di Francesco Totti. Va benissimo, ma la Rai ha un ruolo istituzionale”.
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