VENEZIA – Pupi Avati grande narratore. Non senza accenti polemici. Succede al Lido dove il regista bolognese ha ricevuto il Premio Bresson, massimo riconoscimento al cinema della Chiesa cattolica. Conferito dalla Fondazione Ente dello Spettacolo e dalla Rivista del Cinematografo, con il Patrocinio del Pontificio Consiglio della Cultura e del Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede, il premio è alla ventunesima edizione e ha segnalato in passato la ricerca spirituale di autori come Manoel de Oliveira, Theo Angelopoulos, Aleksandr Sokurov, Ken Loach, Gianni Amelio, Liliana Cavani. Alla presenza di Alberto Barbera e Roberto Cicutto, Avati ha conversato con la giornalista e scrittrice Tiziana Ferrario, lasciandosi andare a confidenze e confessioni, alcuni aneddoti molto noti, come il suo primo incontro con Fellini o quello con Mariangela Melato. O ancora quello con Monicelli, suo vicino di casa.
Per monsignor Davide Milani, “Avati riesce a scorgere la grazia nell’ombra delle cose”. L’autore di film come Il papà di Giovanna e Il signor Diavolo ringrazia: “Bresson aveva un rapporto con la realtà che era fantastico perché diceva che faceva il cinema per mostrare quello che non si vede nel reale. Diceva della sua fede e dell’immortalità che voleva ostinatamente credere, faticosamente, con tanti momenti di incertezza come ce li abbiamo tutti”. E prosegue: “Questi sono i grandi i temi. Non se a Verona ci sono più uomini o più donne”, in riferimento al Festival della Bellezza, dove gli oratori erano tutti uomini. “Purtroppo non dipende da me, perché non sono io l’organizzatore. Io sono stato invitato a parlare del mio rapporto con la bellezza e sono andato. Ma non è che ho guardato il sesso dei partecipanti. Se hanno mancato su questo fronte, sarà una responsabilità loro, non certo mia. Io questo tipo di preoccupazione la trovo molto spesso un po’ pretestuosa, perché con tutti i problemi che abbiamo ci stiamo a preoccupare se ci sono più uomini o più donne ad un festival. Molto spesso i giornalisti non sanno di cosa parlare e allora emergono queste persone che si svegliano la mattina e decidono di polemizzare. Come i negazionisti. Io invece tendo a dare peso alle cose della vita che davvero hanno un senso”.
Un’altra stoccata riguarda il progetto su Dante Alighieri, che accarezza da tempo. ”Per portare sul set il film su Dante manca che il MiBACT si decida finalmente ad approvare questo progetto speciale, perché è un progetto istituzionale legato ai 700 dalla morte del sommo poeta che cadono il prossimo anno”. “Abbiamo tutto – prosegue il regista – Abbiamo già anche Sergio Castellitto che interpreterà Giovanni Boccaccio, il narratore della storia. Abbiamo tutti i pezzi del grande puzzle produttivo e ci manca solo un tassello, che è quello del ministero. Spero che finalmente il MiBACT si decida a sbloccarlo”. Altro argomento caldo il politically correct. ”Qualcuno si scandalizza perché nella giuria di Venezia non ci sono giurati neri? È vero, ma neanche i cinesi. Mi sembra che spuntino polemiche tanto per aprire dibattiti tv con i soliti 8-9 ospiti che hanno un’opinione su tutto”.
Prosegue invece a gonfie vele il film sulla famiglia Sgarbi (siamo all’ultima settimana di riprese). “Renato Pozzetto stupirà con la sua interpretazione. È un triplo salto mortale, perché lo abbiamo portato dal Polo Nord al Polo Sud: affronta un personaggio drammaticissimo, disperato”. Fonte di ispirazione del film è il libro di memorie Lei mi parla ancora, di Giuseppe Sgarbi, padre di Elisabetta e Vittorio. Il regista, che ha spesso sdoganato attori comici in ruoli drammatici, aggiunge: “A Diego Abatantuono dopo Regalo di Natale si è aperto un mondo. Spero di aver fatto qualcosa di simile con Renato. Credo di aver messo Pozzetto nelle condizioni di utilizzare una ‘cassetta degli attrezzi’ che non sapeva di possedere. Ha scoperto di avere un potenziale drammatico serio. Le persone anziane non fanno ridere e per questo i comici faticano a lavorare dopo una certa età, però se tu diventi un attore drammatico credibile ti si aprono nuove porte”.
“Il film racconta di quest’uomo, Nino, interpretato da Pozzetto, che dopo 65 anni perde la donna della sua vita, Caterina, ed è solo e abbandonato nella sua villa. La figlia ha l’idea geniale di fargli raccontare la storia del rapporto con questa donna con l’aiuto di un ghostwriter, che è interpretato da Fabrizio Gifuni. Nel film ci sono tanti attori straordinari”. Scritto dal regista insieme al figlio Tommaso, oltre a Pozzetto nei panni di Nino e Stefania Sandrelli in quelli di Caterina, si vedranno Isabella Ragonese e Lino Musella nelle vesti dei due protagonisti da giovani. Accanto a loro Fabrizio Gifuni, ma anche Chiara Caselli, Alessandro Haber, Serena Grandi, Gioele Dix, Nicola Nocella.
Poi un omaggio al contesto della premiazione: “Come vedete mi sono vestito da sacerdote”, scherza. E più seriamente: “Io prego spesso, tutti i giorni. Chiedo a Dio di esistere, come diceva Dino Buzzati. Ma se vedeste mia sorella pregare davanti alla Madonna di San Luca, sopra Bologna, vi rendereste conto della differenza. Lei ha negli occhi una luce misteriosa di gioia e complicità, una fiducia totale. Per me pregare è un sacrificio. Vado a messa tutte le sere, seduto sulla panca che fu di mia madre, e certe volte avverto una presenza e improvvisamente mi sento amato”.
Poi passa a raccontare i tanti miracoli della sua carriera. “Anche il film che sto facendo lo è. Ma anche il modo in cui ho conosciuto Pier Paolo Pasolini, che aveva rifiutato un mio soggetto scritto con Sergio Citti e tratto da De Sade. Un progetto che poi, per vie tortuose, divenne Salò o le 120 giornate di Sodoma. Andavo con Citti a casa di Pasolini, a via Eufrate 9 tutti i mercoledì. E mentre scrivevamo uno dei film più violenti e definitivi della storia del cinema, addirittura con scene di coprofagia, entrava sua madre a chiedere come voleva le melanzane per cena”.
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