“Federico Fellini è la persona cui devo 35 anni di un progetto. Il mio cinema”. Pupi Avati è in forma, e non si lascia scappare l’occasione di parlare a briglia sciolta di qualcuno che per molti è una leggenda astratta, il più grande regista del mondo paragonato a Kafka, Joyce, Picasso, mentre per lui è invece un ex amico e mentore involontario.
“Trentacinque anni fa entrai in un cinema di Bologna e vidi 8 e ½. Uscito dalla sala, entusiasta, scrissi sulla carta intestata della “Findus” – di cui ero il direttore di zona – una lettera a Fellini. Avevo capito che quello doveva essere il mio mestiere. Ho continuato a scrivergli per 20 anni”, continua Avati, “senza ottenere mai una risposta. Poi mi trasferii a Roma con i miei, vicino a via Margutta. E scoprii che mi abitava accanto… Presi tutti i giorni, per mesi, a camminare sull’altro marciapiede, seguendolo, fino al bar Canova di Piazza del Popolo. Poi, un giorno, decisi di attraversare la strada: ‘Sono Pupi’, gli dissi. E lui rispose: ‘Pupone…!’, abbracciandomi e stringendomi come fosse stato lui a cercarmi per anni!”.
Davanti al pubblico foltissimo della sala del Teatro degli Atti in via Cairoli, nel centro di Rimini, Pupi Avati finisce di regalarci i brandelli del ricordo più bello che ha del suo collega e amico: “Insomma mi chiese il numero di telefono… lui a me! Così prendemmo a passeggiare tutte le mattine fino al bar Canova. Dove bevevamo un caffè in due…”.
Federico timido, Federico introverso e infantile. Questa è l’iconografia del maestro dei 5 Oscar (di cui uno alla carriera), che spesso ci piace ricordare. Ma anche Federico bugiardo, per voluttà, mai per necessità. Federico ironico, soprattutto. Ricorda di lui Renzo Canestrari – saggista felliniano ma anche esperto di malattie mentali – che dopo appena tre sedute psicanalitiche con il rigorosissimo freudiano Servadio, Federico era annoiato, deluso. E decise che seguire il sedere di una bella ragazza per la strada era una cura migliore.
E’ l’alternarsi di questo tipo di racconti sul regista con quelli più articolati e scientifici degli esperti che ha reso il convegno riminese più interessante del previsto. E che il cognato di Fellini, ad un certo punto, non avesse gradito il ritratto che del maestro ha fatto Tatti Sanguineti nel suo libro a quattro mani con Moraldo Rossi Il sesto vitellone (vedi l’articolo di tamtam) è apparso chiaro non appena il critico è salito sul palco per parlare. Il “contenzioso” poco educato tra i due ha reso evidente come il dibattito sulla complessa personalità del regista sia ancora da risolvere: l’amico Sanguineti fa risalire la natura e l’origine dei film del maestro al suo animo “in fuga”, da “vitellone” appunto, il cognato all’ampiezza intellettuale del suo mondo interno. E’ l’eterna discordia tra l’esegesi imbalsamatoria e l’interpretazione meno accademica (Sanguineti ha sferrato una stoccata anche alla celebre biografia felliniana di Tullio Kezich).
Ma è solo al termine della proiezione del mediometraggio Appunti sul film ‘La città delle donne’ di Federico Fellini, di Ferruccio Castronuovo che intuiamo che cosa, esattamente, è mancato in questa intensa “due giorni”. Le immagini dei film di Fellini, uniche vere, imprescindibili, solide testimoni del genio romagnolo di cui Rimini, con questo convegno, è sembrata volersi riprendere una volta e per sempre (finalmente) il merito di avergli dato i natali e di averne sostenuto per cinquant’anni l’ispirazione.
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