Dopo Rocky Balboa (2006), Sylvester Stallone aveva promesso (idealmente) che non avrebbe più indossato i guantoni, e che la carriera del pugile italo-americano si fermava lì. Promessa mantenuta a metà. Ne Il grande match di Peter Segal, in uscita il 9 gennaio, Sly torna a interpretare un boxeur avanti con gli anni, e il grande evento è che incrocia i pugni con Robert De Niro, interprete di una altro grande combattente cinematografico, il Jake LaMotta di Toro Scatenato. Uno scontro tra titani meta-cinematografico: riferimenti e citazioni ai rispettivi ruoli portanti non mancano, ma i due personaggi hanno nomi diversi e non c’è alcun legame di continuità con i film sopracitati. Inoltre, i toni sono quelli di una commedia, molto autoironica, che si lascia apprezzare per il ritmo rilassato anche se costante, che non disdegna una punta di sentimentalismo incarnato da una Kim Basinger che, appena superata la soglia dei 60 anni, non accenna a perdere un briciolo del sex-appeal che da sempre la contraddistingue, e che qui rappresenta il ‘vero’ trofeo che i due arzilli signorotti in calzoncini mirano a conquistare a suon di cazzotti e insulti pittoreschi.
“E’ una sfida – dice Stallone, venuto col compagno di ring a Roma a presentare il film – man mano che si va avanti con gli anni, riuscire a cogliere gli aspetti più drammatici dell’esistenza senza però perdere il sorriso. Come sempre la boxe è una metafora per parlare di cosa avviene nella vita dal momento in cui nasci a quello in cui muori. E’ un simbolo e, se ben organizzato, è estremamente potente perché è in grado di farsi capire dal pubblico di qualsiasi lingua e nazionalità. Mi sono accordo che c’è un pubblico di persone della mia età che può apprezzare questa tematica: è il sogno di tutti. Tornare indietro per poter rimediare a qualcosa che non hai fatto e che avresti dovuto, mettere una pezza, ricucire uno strappo, rimediare a un errore. Il punto è che quando diventi anziano hai la saggezza per capire dove hai sbagliato ma non sempre hai tempo per porre rimedio. C’è ancora molta gente della mia età che ha voglia di vedere questo genere di film. Naturalmente ci sono delle limitazioni, invecchiando non puoi fare le stesse cose che può fare un attore giovane, l’importante è che riesca a tirare fuori la mia emotività”.
“All’inizio – fa eco DeNiro – non era nemmeno sicuro che Sly avrebbe potuto partecipare. Avevo letto il copione e mi era piaciuto ma il suo ‘sì’ è stato chiaramente un fattore determinante. Non ci siamo posti troppi problemi circa la nostra età: ci siamo detti ‘ok, facciamolo. Divertiamoci’. Sappiamo benissimo qual è il sottotesto, ci piace, speriamo che piaccia anche al pubblico. Ci siamo messi sotto, abbiamo avuto ottimi allenatori, d’altro canto noi non ci siamo mai visti come dei rivali anche se Rocky e Taxi Driver sono usciti nello stesso periodo e si sono contesi l’Oscar. Sono arrivato a un punto della mia carriera in cui non sono più io a dover cercare i ruoli. Aspetto proposte. Certo non posso più interpretare i ruoli di trent’anni fa, ma dato che viviamo nell’epoca del digitale, chi può dirlo?”
Già, chi può dirlo? E’ notizia certa che, al contrario di quanto Sly ha voluto farci credere finora, Rocky tornerà al cinema: “Ma solo come allenatore – dice Stallone – come pugile è ormai in pensione. Nello spin-off Creed il protagonista sarà Michael B. Jordan nei panni del nipote di Apollo, eterno rivale di Rocky. Speriamo di cominciare a girare il mese prossimo”.
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