Metà Anni ’60, Galati Mamertino, Monti Nebrodi, Sicilia. La collocazione storica, geografica, dunque sociale, è uno spunto perché la vicenda cinematografica di Primadonna si fa universale e trasversale al tempo e allo spazio, anche se parlata per la più parte in stretto siculo (sottotitolato), scelta che amplifica l’efficacia del palpitare della storia, senza circoscriverla.
Lia, interpretata da Claudia Gusmani, 21 anni, è una fanciulla per bene del paese, ama lavorare la terra col papà Pietro (Fabrizio Ferracane), seppur la mamma – sempre piuttosto preoccupata del parere “degli altri” – sia un po’ contrariata che si occupi di faccende meno casalinghe. Con anche il fratellino Mario, i Crimi sono una modesta famiglia contadina, altrettanto dignitosa, certamente coraggiosa: Lia s’invaghisce pudicamente di Lorenzo (Dario Aita), figlio di una famiglia molto meno perbene della sua, seppur l’intenzione affettiva di lui probabilmente lo fosse, non meno però portata per mano da un preciso senso dell’esercizio di potere, per cui se i Musicò volevano una cosa se la prendevano, e così è stato per Lia, assaltata/rapita in casa propria da una bandella di picciotti e dal giovane spasimante, per poi essere portata in un casale di campagna dove lui le è “salito sopra” senza il suo consenso.
Ma Lia alla fuitina, al matrimonio riparatore, non ci sta, e la sua famiglia, modestissima e di nessun potere, si schiera dalla sua parte e con Orlando (Francesco Colella), ex sindaco e avvocato poco stimato, affrontano un processo a porte aperte, seppur “mortificante” dirà lei nel film: Lia è così la prima donna, da qui il titolo del film, a opporsi formalmente al matrimonio riparatore, che spesso nella Storia ha significato sollevare dalla colpa uno stupratore. Lo spirito volitivo di Lia e così l’esito del procedimento giudiziario che ha condannato Musicò a 11 anni di carcere, e con lui i suoi compari, ha permesso di cambiare la legge.
“Mi sono resa conto fosse la storia di tante donne che si battono per autodeterminarsi”, afferma Marta Savina, che con la sua opera prima ha vinto il concorso Panorama Italia ad Alice nella Città 2022, mentre in film esce nei cinema distribuito da Europictures, dalla data simbolica dell’8 marzo, la prima settimana in 40 sale nazionali. “Ho lavorato partendo dall’idea che gli esseri umani sbaglino, proprio perché l’empatia non dipende dall’essere uomo o donna. Con Fabrizio (Ferracane) abbiamo lavorato per un padre dolce e al tempo stesso essenziale, una figura per supportare e non prevaricare Lia. Lorenzo non l’ho mai pensato carnefice: il problema suo, e in generale anche di oggi, è la società sbagliata e che lì lo porta a fare con nonchalance cose atroci. C’era quindi grande compassione per il personaggio di Lorenzo. Per me doveva essere fatto un lavoro in onestà, non avevo interesse nel tirare una linea tra buoni e cattivi: raccontando storie, trovo interessanti le sfumature di grigio”.
Una storia, quella per il grande schermo, che nasce là dove sono i natali del padre dell’autrice fiorentina, a Galati appunto, con un respiro fortissimo di realismo ma “impossibile tracciare dei confini, io manipolo questa storia dal 2013/14: è stato come una sorta di lievito madre rinfrescato da anni, senza più un confine. L’idea era di una rivoluzione silenziosa, che venisse da un gesto apparentemente molto piccolo. L’ispirazione era il modo con cui parlano le persone concrete che hanno un rapporto viscerale con la terra e i cicli della vita”.
Per Claudia Gusmano un film così comporta “un coinvolgimento totale, pensi che il tuo lavoro abbia un senso, che sia una missione: c’era da raccontare una storia che ha cambiato quella di noi donne, e anche degli uomini. Avendo lavorato già con Marta sapevo che non avrei mai potuto fingere: durante la lavorazione non cercavo immedesimazione in 60 anni fa ma nel presente, nelle donne della mia famiglia, del contemporaneo”.
Un’opera prima, quella di Savina, che permette di rintracciare già una personalità autorale, per esempio nella scelta, che sarebbe stata didascalica forse, ma anche realistica, del linciaggio di Lia in tribunale, invece non fatta dall’autrice: si è trattato di “una scelta di campo: così come non si vede lo stupro. Non credo ci sia bisogno di vedere e al contempo non volevo cadere nel pietismo. Volevo che Lia mettesse alla prova lo spettatore spingendo i confini dell’eroina, perché a volte lei è anche antipatica, fastidiosa”.
Per Ferracane, “è un film intenso e Marta ha saputo coinvolgermi parlando di questo padre con amore e necessità: questo film lo dedico a tutti i padri, soprattutto spero lo vedano più padri possibile”.
Nel cast, anche Thony, la prostituta Ines, pregna di una dolce sorellanza per Lia, seppur il suo intento di supporto sia placato dall’agire del discutibile parroco interpretato da Paolo Pierobon.
Il film di Savina, infine, non manca di senso poetico, di capacità evocativa, in particolare nelle due sequenze – intermedia e finale – sulla spiaggia, nell’acqua del mare, tra il buio della notte feso dalla luna e la luce viva del sole, simboli e metafore tutt’altro che di corredo secondario, ma altrettanto di efficace suggestione.
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