VENEZIA – ”Un cambiamento è in atto. Quanto rapido sarà dipende tutto da noi”. Lucrecia Martel, regista e femminista, argentina, autrice di opere sparute come La ciénaga, La niña santa, La mujer sin cabeza, non si smentisce anche in occasione della consegna del prestigioso Premio Robert Bresson, giunto alla ventesima edizione e andato per la seconda volta a una donna, dopo Liliana Cavani. Il riconoscimento che ha il patrocinio del Pontificio Consiglio della Cultura e del Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede, viene assegnato dalla Fondazione Ente dello Spettacolo, presieduta da Mons. Davide Milani, che spiega: ”ogni anno il premio va allo sguardo che meglio riesce a cogliere, attraverso il cinema, la parte più autentica dell’uomo, oltre la sua pura materialità, trascendente e completo in se stesso”. Questa la motivazione: “Robert Bresson ha scritto che ‘girare vuol dire andare a un incontro’. Basterebbero queste parole per apprezzare la consanguineità tra il cinema del maestro francese e quello di Lucrecia Martel: quattro film per presentarsi al cospetto della settima arte con tutte le referenze del caso: uno stile cristallino, una poetica riconoscibile, una personalità fortissima. Quattro film per entrare nel suo mondo di personaggi talvolta opachi e talvolta solo sbiaditi, di programmi velleitari e orizzonti inagibili, di sfide ostiche e crisi mistiche, di slanci improvvisi e fossi a perderci l’anima. Tra il desiderio delle cose invisibili e la realtà di quelle visibili, l’occhio della Martel scruta il risvolto che unisce entrambe, con dolore e meraviglia, tristezza e piacere, sempre con quel desiderio enorme di comprendere che cosa significhi in fondo essere umani”.
La regista, anche presidente di giuria, è stata al centro di polemiche per le sue dichiarazioni in merito a J’accuse di Roman Polanski. Così la giornalista Tiziana Ferrario, che conduce la premiazione, ha gioco facile nel portare il discorso sul gender: ”Questo è un premio molto importante e lei è la seconda donna a riceverlo, dopo Liliana Cavani. È un bel traguardo, segno che qualcosa sta cambiando per le registe”. ”Era ora”, replica Lucrecia Martel. “Non si tratta solo di aprire la porta alle donne nel mondo del cinema ma anche di prendere misure, magari imperfette o scomode ma utili ad affrontare il problema. Come le quote rosa, già adottate in politica e in economia”. Racconta, poi, di aver ricevuto dopo le recenti polemiche durante il festival (”Sono abituata alle domande difficili, non so se rispondo sempre bene, ma preferisco farlo comunque piuttosto che evitare la domanda”) una mail di Kathleen Kennedy, la donna che ha reso possibili tanti film di Spielberg e George Lucas, fondamentale per il cinema di Hollywood. ”Kathleen mi ha detto di aver iniziato a lavorare proprio grazie alla presenza di quote riservate alle donne”. E sul movimento #MeToo, cosa pensa? ”È la punta dell’iceberg. Riguarda la protesta di donne coraggiosissime, ma che sono sotto i riflettori, però si regge anche sulle spalle di decenni di lotta portata avanti da donne che non hanno mai avuto accesso alla stampa”. E prosegue: ”Lottiamo affinché le donne vengano ascoltate dalla giustizia, ma finché la giustizia non ci ascolta l’unico modo per emergere è provocare uno scandalo mediatico, a nessuno piace il giudizio sommario di un attacco mediatico e speriamo di fare un ulteriore passo avanti”.
Regista dai tempi lunghi di gestazione, da otto anni sta lavorando a un documentario su reati commessi contro le comunità indigene del continente latinoamericano. “La questione indigena somiglia alla questione femminile: a loro si chiede di dimostrare il proprio status, così come alle donne viene chiesto di fare un discorso a parte, al femminile”. E ancora, un’altra somiglianza: ”Per secoli gli immigrati europei hanno deformato il pensiero locale, negando l’esistenza e i diritti degli indigeni. Evidente come questo si leghi alla questione uomo-donna”. Davide Milani chiede al Lucrecia cosa la colpisca maggiormente nelle opere che è chiamata a giudicare. ”Mi piace chi riflette sul mondo come se questo non ci appartenesse, chi non lo dà per scontato, come se non fossimo noi ad abitarlo e a deciderne le regole e le sorti. Se in un film qualcuno si fa una doccia calda come se fosse normale, la cosa mi rende sospetta, perché la doccia calda è prerogativa di una piccolissima parte della popolazione, un’eccezione. E Bresson, in questo, metteva in discussione tutte le cose che fuori dal cinema potremmo dare per scontate”.
E' da segnalare una protesta del Codacons con annessa polemica circa la premiazione di Luca Marinelli con la Coppa Volpi a Venezia 76. L'attore aveva rilasciato una dichiarazione a favore di "quelli che stanno in mare e che salvano persone che fuggono da situazioni inimmaginabili". "In modo del tutto imprevedibile - si legge nel comunicato del Codacons - il premio come miglior attore non è andato alla splendida interpretazione di Joaquin Phoenix"
Venezia 76 si è distinta anche per una ricca attività sul web sui social network. Sulla pagina Facebook ufficiale sono stati pubblicati 175 post che hanno ottenuto complessivamente 4.528.849 visualizzazioni (2018: 1.407.902). Le interazioni totali sono state 208.929 (2018: 64.536). I fan totali della pagina, al 6 settembre 2019, sono 360.950, +4.738 dal 24 agosto 2019
Nel rituale incontro di fine Mostra Alberto Barbera fa un bilancio positivo per il cinema italiano: “In concorso c’erano tre film coraggiosi che osavano – ha detto il direttore - radicali nelle loro scelte, non scontati, non avrei scommesso sul fatto che la giuria fosse in grado di valutarne le qualità"
Luca Marinelli e Franco Maresco, rispettivamente Coppa Volpi e Premio Speciale della Giuria, ma anche Luca Barbareschi per la coproduzione del film di Roman Polanski J'accuse. Ecco gli italiani sul podio e le loro dichiarazioni