Sono passati 35 anni dal primo adrenalinico film della saga Predator, diretto da John McTiernan. Era il 1987, Schwarzenegger era in piena ascesa e il film venne lanciato tutto attorno alla sua presenza e alla sua immagine, ma in realtà la campagna, geniale proprio nella creazione di questa ‘misdirection’ era volutamente ingannevole. Il protagonista non era il muscoloso attore austriaco, bensì la sua nemesi, un alieno di razza ‘Yautja’ venuto sulla Terra a soli scopi ‘sportivi’.
La sua specie è infatti costituita da abili cacciatori che cercando prede da combattere e catturare, ma in questo caso avevano scelto la persona sbagliata. Se vogliamo, era un trend dell’epoca, quello di titolare un franchise all’avversario, che aveva trovato applicazione anche nel film che lanciò lo stesso Schwarzenegger, l’epocale Terminator di James Cameron. Il fascino del film stava anche nel non rivelare la sua natura fantascientifica prima di una buona mezz’ora di pellicola. A vederlo, infatti – e la campagna non faceva niente per evitare che questo accadesse, anzi – sembrava inizialmente uno dei tanti film di guerra che spopolavano al momento, tutti nati dal successo di Rambo, e a cui spesso lo stesso Schwarzy, eterno rivale di Stallone, prendeva parte, magari cogliendo l’occasione per prendere un po’ per i fondelli Sly, come nel divertentissimo e semi-parodistico Commando.
Nel film di McTiernan un gruppo di mercenari guidati Alan ‘Dutch’ Schaefer (Schwarzenegger) si ritrovava in una giungla del Sudamerica contro una minaccia misteriosa, che solo da un certo momento in poi si rivela essere di origine extraterrestre. Un successo globale che ha dato origine e tre sequel (nel 1990, 2010 e 2018) con diversi protagonisti e due film crossover con la saga di Alien, innestati dal secondo capitolo, dove nell’astronave dell’alieno si intravedeva il teschio di uno Xenomorfo, dando a intendere che le razze dei due franchise si fossero incrociate.
Interessante in questo caso notare come le due razze a livello simbolico rappresentino degli archetipi: la cultura degli Yautja, incentrata sulla caccia, riporta a uno schema tribale a tendenza presumibilmente partilineare (e patriarcale), mentre la simbologia degli Xenomorfi di Alien è tutta legata alla matrilinearità (la riproduzione avviene a partire da una regina che depone le uova) e alla fecondazione (pensiamo al modo in cui i face-hugger brutalizzano le vittime impregnandole con il seme che poi sfocerà in un orribile parto toracico) e quindi di matrice decisamente ‘agricola’.
In sostanza, sebbene in contesto commerciale, la narrazione rimanda al grande ricordo collettivo dello scontro culturale tra pastori nomadi e agricoltori sedentari, un grande classico dell’antropologia.
Per non parlare di libri, videogiochi e fumetti che hanno arricchito il tutto nel corso degli anni. Oltre a quelli ufficiali, c’è da segnalare l’impatto che il film ha avuto nella cultura di massa, venendo citato anche nella nostrana serie ‘Zagor’, nei numeri 508 e 509, ‘Il fuoco dal cielo’ e ‘Minaccia aliena’.
Gli intenti della saga comunque, furono chiari già a partire dal secondo film, che esplicitava il concetto già accennato dal primo: non sono gli umani i protagonisti, ma gli Yautja, i ‘Predator’ appunto. Quindi la storyline con Dutch/Schwarzenegger scompare e viene sostituita da uno scenario urbano in stile ‘giungla d’asfalto’, relativamente futurista – il film è del ’90 ma si ambienta nel ’97 – dove a fronteggiare il pericolo spaziale è un Danny Glover appesantito e sciancato, agente di polizia vicino alla pensione a cui capita questa sciagura tra capo e collo. Meno muscoli e più cervello … riuscirà comunque a tenere testa al pericoloso avversario.
Dopo vari tentativi di reboot non troppo riusciti, a ripescare il franchise ci pensa ora Dan Trachtenberg (10 Cloverfield Lane, The Boys, ora al lavoro sulla serie tratta da Waterworld) , immaginando un prequel che intelligentemente sovverte le premesse, già a partire dal titolo che non è più Predator (Predatore) ma Prey (Preda), e che porta il cacciatore alieno – in verità, uno dei tanti. Solitamente si tratta di individui diversi della medesima specie, che alla fine di ogni pellicola finiscono per soccombere agli umani – nella nazione Comanche, nell’America del 1700.
Sarà una giovane guerriera a doverlo fronteggiare sfruttando al meglio le poche armi che si trova a disposizione… tramutandosi da preda a predatrice!
Il film, prodotto dalla 20th Century Fox, debutterà come Hulu Original negli Stati Uniti, come Star+ Original in America Latina e come Disney+ Original sotto il brand Star in tutti gli altri territori, Italia compresa, con un anteprima il 26 luglio al Giffoni Film Festival. Uno dei punti centrali del film è stata la collaborazione della reale nazione Comanche (oggi di circa 10 mila membri, che vivono soprattutto in Oklahoma) sia per l’uso della lingua nativa, sia per il casting, sia per l’attenzione filologica alle ricostruzioni d’epoca rispetto alle vita in tribù oltre 300 anni fa. Un percorso guidato dalla produttrice Jhane Myers, anche lei di origini Comanche.
“Per me realizzare un film che parlasse delle tradizioni del mio popolo con questo rispetto ed attenzione è stato un sogno diventato realtà” spiega la regista nella conferenza stampa internazionale in streaming. Nella storia, entriamo in un popolo fiero che vive con ciò che gli offre la natura.
L’avversaria principale del ‘predator’ (che effetti cgi a parte è interpretato sotto la tuta in spandex dallo statuario ex giocatore di basket Dane DiLiegro) si rivela Naru (Amber Midthunder), giovane guerriera e cacciatrice con straordinarie capacità, sempre affiancata nelle sue avventure dal suo fedele cane, ma poco apprezzata nella sua tribù e sempre paragonata al fratello Taabe (Dakota Beavers) destinato a diventare capo.
In una foresta popolata di predatori (avventurieri francesi compresi) Naru è la prima a rendersi conto dell’arrivo di una nuova spietata feroce creatura che non ha nulla di animale o di umano.
“La principale ispirazione per me, oltre all’amore che avevo per questa saga e il fascino che ho sempre provato per i film di fantascienza legati ad epoche diverse, è stata fare un film che fosse primariamente guidato dall’azione, che non si limitasse solo a intrattenere ma coinvolgesse emotivamente. Penso a titoli come Gravity o 1917, storie di sopravvivenza – spiega il regista -. Volevo che ci entrassero i meccanismi dei film sullo sport dove ci si ritrova a tifare per lo sfavorito ma mi piaceva anche l’idea di un western senza cowboy”. Amber Midthunder (già fra i protagonisti di serie come il reboot di Roswell), interprete emergente nata in Nuovo Messico ma con origini anche nativo americane legate ai Sahiya Nakoda, si è preparata insieme al resto del cast, al combattimento, all’uso delle armi e delle tecniche di sopravvivenza in un boot camp: “E’ stata un’esperienza che ci ha molto unito, come anche trascorrere vari mesi per le riprese in Canada, stando quasi sempre insieme, visto che c’era il Covid. Volevamo dare tutto di noi a questo film” sottolinea.
Prey per lei è molto importante anche in termini di visibilità: “Tutti vogliono sentirsi ‘visti’. Il nostro film è molto divertente e selvaggio, esplora diverse esperienze umane ma ha anche il merito di raccontare e portare a nuove generazioni la cultura Comanche, la sua potenza, la sua importanza”.
Naturalmente, il gioco è anche su uno dei poteri principali dell’alieno, una forma di mimetismo che lo porta quasi all’invisibilità.
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