Pippo Delbono: il mio Cristo nigeriano senza permesso di soggiorno

Presentato alle Giornate degli Autori il nuovo film dell’artista che sarà insignito del premio SIAE al talento creativo. Vangelo è una promessa fatta a sua madre sul letto di morte


VENEZIA – A Pippo Delbono, che porta alle Giornate degli Autori il suo nuovo film Vangelo, va il del Premio SIAE al talento creativo, evento speciale della sezione indipendente della Mostra. Una serata speciale per celebrare l’artista che quest’anno “frequenta” i Venice Days ianche in veste di attore (per il film La ragazza del mondo di Marco Danieli). Lo consegnerà Filippo Timi mentre il direttore generale della SIAE Gaetano Blandini definisce Delbono “un artista come pochi altri, capace di sperimentare sulla scena lavorando nel solco fertile del tracciato tra autobiografia e cronaca”. “Vangelo è un grido potente perché impariamo a tornare ad essere la società dell’inclusione e della partecipazione”, commenta Giorgio Gosetti per le Giornate degli Autori. Delbono sarà in compagnia di Paolo Sorrentino, a cui andrà il premio per l’innovazione creativa.

Vangelo esaudisce una richiesta avanzata a Delbono da sua madre prima di morire. “Fai il Vangelo, fai qualcosa che parli dell’amore”. “Come faccio a fare il Vangelo, mamma? – è la risposta iniziale – Io non credo in Dio. Non credo a questo Dio delle menzogne, della famiglia, in questo Dio che mi insegnavate da piccolo, il Dio delle paure, paura di tutto, anche dell’amore. Dell’amore. Questo Dio dei miracoli. Questo Dio che cammina sull’acqua. Si può solo sprofondare nell’acqua, come sprofondano tutte queste persone che stanno arrivando qua e cadono, come dei Cristi, in mezzo al mare”.

E qui, succede qualcosa. Pippo si reca presso una comunità che ospita rifugiati e condivide la loro quotidianità fatta di tempo sospeso tra dolorose memorie e incerto futuro. Poco alla volta loro si aprono al regista, gli raccontano le loro storie. Qualcuna di queste sarà nel film, altre rimarranno segrete. E alla fine l’idea di mettere in scena il Vangelo prende una sua forma incarnandosi nelle vite di queste persone, inevitabili protagoniste di un tempo nuovo. La storia del Vangelo e quella dei profughi.

A che punto del suo lavoro hanno iniziato a incrociarsi?

Mi tornano in mente cose che avevo dimenticato, ma ho sempre visto immagini del Cristo e della madonna ovunque, nella mia camera, senza capirle, e a volte mi veniva anche la nausea. Siamo assuefatti a questa iconografia morale. Sono andato a riprendere invece il Vangelo che non leggevo da trent’anni ma conoscevo, sono stato un chierichetto. Ma ho capito che non volevo fare un’apocrifo, né un’analisi. Sono partito dalle frasi più semplici, quelle che tutti conosciamo. Arrivava in un momento in cui ero ferito, ero passato per gli ospedali. Sono arrivato lì e nessuno sapeva che ero un artista. Anzi ero distratto, perdevo le cose. Mi sono buttato come un bambino e così ho girato, ma con lucidità. Sapevo di non voler fare un documentario, sarebbe stato un atto di violenza. Non volevo rubare l’intimità di questa gente. Giravamo e loro sapevano che c’era una telecamera, ma hanno tirato fuori una capacità incredibile. A volte basta uno sguardo. E’ recitazione, non psicologia. Tutto quello che era troppo documentaristico poi l’ho eliminato. Mi interessa lo sguardo, il pianto e l’azione, un approccio brechtiano, se vogliamo. Rappresento la loro gabbia.  

Mi parli di più di questa gabbia…  

La stessa gabbia dove si trovavano gli Ebrei, e lo stesso Cristo. La gabbia imposta dai romani, cioè noi. Barabba aveva ucciso un romano. Era più simile a Che Guevara che a un ladrone.  

Qual è la storia del suo Cristo?

Il mio Cristo è un ragazzo nigeriano, che oggi lavora in compagnia con me e a cui è stato rifiutato due volte il permesso di soggiorno. Per essere qui a Venezia ha dovuto fare ricorso. E’ una persona che lavora e ha degli impegni. Io stesso mi sono esposto per lui e mi hanno risposto “apprezziamo la sua attività di accoglienza ma non è motivo sufficiente per dargli un permesso”. Mi sono arrabbiato e offeso tantissimo, non stiamo facendo un’oretta di teatro a settimana con i rifugiati. Stiamo facendo arte, lavoriamo. Dicono “non facciamo distinzione per nessuno”. Quindi la legge è uguale per tutti solo quando gli conviene. A parte che loro vengono qui per motivi economici e non per la guerra. Questo sarebbe il motivo per cui non dovremmo accoglierli. Agghiacciante.

Lei lavora con i cellulari, o comunque con camere molto leggere, spesso partecipando alla scena in prima persona. Questo la rende un po’attore anche quando fa il regista…

ì, sono anche un danzatore e lavoro col corpo, bisogna saper lavorare con le mani. Intendiamoci, non è fatto ideologico, mi piace la qualità nel cinema e uso anche telecamere un po’ più importanti, comunque sempre entro i duemila euro. Magari quando mi devo allontanare, la grana sta bene sui primi piani. Dipende dalle situazioni. I cellulari sono strumenti straordinari ormai, non serve avere una grande troupe. E spesso giravo ‘buona la prima’, ho cercato di limitare il più possibile il numero di ciak.

Il suo lavoro è anche politico?

Ci diventa, per quello che dicevamo prima. Ognuno dei miei attori ha un nome e una storia. Non sono ‘i rifugiati’. Oggi li porto tutti sul tappeto rosso, e qui sembra una cosa strana. Li hanno messi tutti nello stesso appartamento. E’ un sistema conformista con cui bisogna sempre combattere.

Lei qui recita anche in un altro film, La ragazza del mondo, su una opprimente comunità di Testimoni di Geova. Perché c’è questo ritorno estremo alla religione?

Si tende all’esagerazione, comunque io sono un praticante buddista. Non preferisco Dio o nessuna morale specifica, per me esiste l’uomo e Dio lo hanno inventato, come proiezione di un grande mistero. Però credo ai miracoli. Mi avevano dato morto nell’89 quando ho scoperto di essere sieropositivo. Siamo nel 2016 e non ho nemmeno il raffreddore. Ho trovato la cura dentro di me, non è la madonna di Lourdes a salvarti. Sei tu a doverti aiutare, e aiutarti significa conoscerti. E accettarti. Sei omosessuale? Non importa. Questa è la carenza della Chiesa oggi, anche se questo papa sta mettendo in atto gesti rivoluzionari che non vedo più nei politici.

Perché?

Perché sono ossessionati dal politically correct. Sono sicuro che a qualcuno non piacerà vedere i miei rifugiati ‘in gabbia’. Ma invece se sei sincero e non mistifichi allora davvero racconti la loro storia. Sanno anche essere feroci. E come li vorremmo? Tutti docili, assoggettati, che non reagiscono?

A proposito del papa, ha visto The Young Pope di Sorrentino?

Non ancora, ne ho vista qualche immagine e devo dire che mi ha molto colpito. A volte con Paolo discutiamo. Lui dice che non può più fare il cinema ‘maleducato’, mentre mi dice che io lo sono fin troppo, maleducato. Però sono contento che ci premino insieme, e che ci siano anche le istituzioni. La Rai, la SIAE. Devo dire, e non ho problemi, che in questo momento sono la mia casa. Sembrano le realtà più vive e concrete in questo mondo di apparenze, tappeti rossi e selezioni a cui non credo più. Forse bisognerebbe rifletterci, come ha fatto la Francia, alla ricerca anche di un pubblico più serio.  

Quindi, con le istituzioni, ora ha un buon rapporto?

Posso dirle che mi sono salvato grazie a un carabiniere, che voleva farmi la multa nel momento in ci stavo peggio. Letteralmente, lo pregai di non farlo, stavo frequentando un sacco di medici alternativi ed ero senza soldi. Mi disse: ‘ma vada all’ospedale’. Lì ho incontrato una dottoressa che ha fatto con me l’intero percorso e oggi siamo qui a raccontarlo. E sempre su consiglio di un carabiniere sono andato in ospedale di recente. Mi si era gonfiato un occhio e si è scoperto che mi aveva punto un insetto. Se lo avessi trascurato avrei rischiato davvero brutto.            

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