Pippo Delbono: amore disabile

L’attore si innamora di una ragazza disabile in 'Henri' di Yolande Moreau, presentato a France Odeon


FIRENZE – E’ Pippo Delbono, interprete dello struggente Henri di Yolande Moreau, il protagonista della terza giornata di France Odeon. Nella pellicola, Delbono si innamora di una ragazza disabile (la straordinariamente espressiva Miss Ming già vista in Mammuth con Dépardieu). Per l’occasione, il festival ha organizzato un evento in collaborazione con l’AIPD e Trisomia 21, che  si occupano di problematiche relative alle persone Down, così come l’avvocato Giovanna Cau, che ha presenziato. Nel corso del pomeriggio ragazzi affetti dalla sindrome hanno portato la loro testimonianza, raccontando la loro vita ‘da adulti’, in coppia e nel mondo del lavoro, per sensibilizzare i presenti circa la necessità di non essere considerati come degli eterni bambini, cosa che nella società di oggi, ancora, si tende a fare.

E naturalmente c’era anche Delbono, che ha raccontato il suo punto di vista. “Non è un film sull’handicap – dice l’attore – è un film sulla libertà, che coinvolge anche personaggi al di fuori della categoria degli attori, con cui diventa fondamentale il sapersi ascoltare”.

Come ha lavorato assieme a Yolande Moreau?
La conoscevo già come attrice ma è stata una sorta di ‘chiamata’. Una sera, a Perugia, entrai in un cinema dove proiettavano Seraphine.  La sua interpretazione mi colpì tantissimo: come un bambino, da quel gorno decisi che era la mia attrice preferita. Riesce a infondere ai suoi personaggi una grandissima carica di umanità. Quando si fa questo mestiere c’è sempre il rischio di perdersi e sentirsi delle star. E’ normale, ti fanno foto, interviste. Io faccio principalmente il regista e negli attori lo vedo. Yolande questo non ce l’ha, non ha mai assunto la categoria. Potrebbe essere una venditrice di prosciutti, in senso buono, e questo mi colpì e mi commosse. Qualche giorno dopo mi dissero che proprio lei mi cercava per fare un film.

Lei è già abituato a lavorare con persone ‘particolari’…
Si riferisce a Bobo, che lavora in compagnia con me. Straordinario, analfabeta, sordomuto, 45 anni in manicomio. Ma Yolande questo non lo sapeva. Fa anche un cameo in questo film, con il maglioncino blu. E’ stato un incontro di armoniche casualità: ci siamo ascoltati vicendevolmente e tutto ha funzionato per il meglio. C’è una follia di base nella nostra cultura, pensiamo alla tv: sempre le stesse facce, gli stessi uomini, le stesse donne, gli stessi sorrisi, la stessa qualità. Per questo non credo nel ‘teatro handicap’, come dicono in Germania. Mi invitano alle rassegne e non ci sono mai andato. L’handicap è alla base della nostra società. Il personaggio le sembra cucito letteralmente addosso… Mah, interpreto me stesso, fondamentalmente. Non credo nella psicologia dell’attore, cose del tipo ‘sono felice ma triste. Amo ma non amo’. Quella roba ti uccide. Il mio è il metodo del guerriero orientale, d’azione.

Come sono andate le riprese?

Due mesi tra Francia e Belgio, un ambiente di periferia. Io avevo appena perso mia madre, temevo di deprimermi. Ma la prova più dura sono stati i piccioni: io li odio, sono fobico. Se ne vedessi entrare uno ora, scapperei a nascondermi. Invece Henri li ama, in una scena ho dovuto interagire con 120 piccioni, e c’era un allevatore che continuava a tirarmeli addosso. Quasi quasi stavo per dirgli di venire lui a recitare al posto mio. Cercavo di concentrarmi su altro, ma lì, un po’, mi sono comportato davvero da star. Ho detto: ‘tre riprese e poi basta’.

Ci parli del personaggio di Rosette, con cui si relaziona nel film…
Come con Bobo, lavorare con Miss Ming richiede sempre una grande dimensione di verità. E’ al limite tra l’attrice e sé stessa, sei sempre in bilico nella vita e non puoi fingere troppo. Questo per me è un’esperienza fantastica. Sei costretto a restare vero anche lui. Penso che in questo momento storico risieda in questi personaggi, un po’ come I carcerati dei Taviani, la speranza di uscire dal mondo di plastica in cui ci troviamo, tanto per citare Frank Zappa. Lontano dal grande Fratello, con loro che vivono esperienze al limite si riguadagna la credibilità: Bokowski letto da un attore francese non mi dà più emozioni, letto da Bobo sì. Ci dobbiamo riavvicinare a queste categorie per ritrovare quella verità che le scuole e le accademie ci han fatto perdere.

E’ molto particolare anche l’utilizzo della musica…
C’è ‘Ti amo’ di Umberto Tozzi che francamente non ho mai sopportato. Io, che ascolto Zappa, o Lou Reed, cercavo di spiegare a Yolande che quella per noi è musica spazzatura. Ma poi ho capito che in un certo contesto anche un pezzo così commerciale può diventare poesia. E’ il bello della musica: a seconda di come la abbini, diventa altro. E’ una particolarità di Yolande così come il suo modo anarchico di concepire il montaggio, senza l’ansia degli ‘stacchi’. Sapersi fermare sulle persone, sugli sguardi, come si fa nella vita reale… è il suo ritmo, ha a che fare con la capacità di ascolto e la femminilità.

Nel film compare brevemente anche Yolande. E’ stata un’improvvisazione?
No, conosceva le battute perfettamente. Il bello è che lei essendo attrice con una lunga storia di teatro alle spalle conosce le regole dell’attore: gli sguardi, gli occhi, i gesti, la posizione di una mano. C’era armonia tra noi. Io ormai mi sono abituato a realizzare i miei film in solitudine, col cellulare. Odio il fragore delle troupe italiane, tanto rumore e zero passione. Yolande dedicava attenzione al 100% a tutti, anche a chi aveva il ruolo più piccolo. E così facevo anch’io: chi mi portava la birra la sera ha tanta importanza quanto l’attore principale. Nelle strutture italiane questo manca: c’è chi gestisce le comparse, ma il regista nemmeno le vede. Invece bisogna capire che è fondamentale anche chi svolge il compito più umile. Così si crea l’armonia che non si vede, ma si sente.

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02 Novembre 2013

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