“Si può ridere della mafia. La cosa fondamentale è che la satira non offenda la tragedia”. È la tesi di Pierfrancesco Diliberto, meglio noto come Pif, popolare come intervistatore guastafeste in programmi come Le iene o Il testimone, ora diventato regista. Il suo primo film, La mafia uccide solo d’estate, sarà in concorso al Festival di Torino e poi in sala dal 28 novembre. È un film difficile da catalogare, una commedia tragica ambientata a Palermo tra gli anni ’70 e gli anni ’90, raccontata dalla voce di un protagonista in parte autobiografico, il piccolo Arturo che diventa grande mentre la mafia insanguina le strade della città e i servitori dello Stato cadono sotto i suoi colpi: giudici, poliziotti, giornalisti, eroi come Rocco Chinnici, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Boris Giuliano, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. E il film, prodotto dalla Wildside con Rai Cinema, scritto con Marco Martani e Michele Astori, ripercorre queste vicende della storia d’Italia con un tono scanzonato che rende ancor più atroce quello che si vede. Arturo è innamorato di Flora (da piccoli sono Alex Bisconti e Ginevra Antona, da grandi lo stesso Pif e Cristiana Capotondi) ed è un bambino taciturno, che non osa dichiararsi, in un mondo dove il silenzio e l’omertà sono un valore. In quel mondo alla rovescia dove suo padre lo educa al quieto vivere e tutti negano l’evidenza, il suo mito diventa Giulio Andreotti a cui vuole somigliare in tutto. E, prendendo le sue parole, come quelle di un altro democristiano, Salvo Lima, alla lettera, ne mette in evidenza tutta l’atrocità. Eppure ci vorranno molti anni, a lui come a tutta la Sicilia, per capire come stanno davvero le cose.
Fare satira sulla mafia può sembrare qualcosa di molto singolare, anche se qualche precedente c’è. E il più illustre è rappresentato dall’universo di Ciprì e Maresco. Si è ispirato a qualche film in particolare?
No, nessuno. Con Il testimone, il mio programma su MTV, mi capita di parlare di mafia a partire dalla brioche col gelato, una delle cose buone che abbiamo a Palermo. Il mio modo di raccontare funziona tanto bene che riesco a pagarci l’affitto. E poi a Milano mi fanno tante domande sulla mafia, perché la gente vede Totò Riina e pensa come fa quello lì, con quell’aria da contadino analfabeta a comandare? Ma a Milano non sanno che c’è anche la Palermo bene, persone educate e gentilissime, eppure colluse. È come quando negli anni ’80 le ragazze portavano quelle orrende spalline sotto le giacche, nessuno si lamentava, perché andavano di moda e io mi sono chiesto come mai nessuno diceva nulla… La stessa domanda me la pongo rispetto alla mafia. Se tu ascolti le dichiarazioni di Andreotti ti chiedi: come è possibile? Era tutto così evidente, perché la gente non si ribellava?
Già, perché?
Alcuni erano collusi, altri rinnegavano la pericolosità della mafia e dicevano, di un morto ammazzato, che era un femminaro, che aveva debiti di gioco, che la mafia non esiste. Così, pur essendo cresciuto in quegli anni – sono nato nel ’72 – non ricordo grossi traumi. L’atteggiamento dello Stato di allora e della collettività ha isolato uomini come Chinnici, Dalla Chiesa, Falcone e Borsellino. Ci siamo svegliati solo con le stragi del ‘92.
Avete fatto dialogare le immagini del film con le immagini di repertorio dei tg.
La vita di Arturo è in qualche modo ispirata alla mia vita vera anche se inventata e si incastra con i fatti realmente accaduti che tornano nelle immagini delle Teche Rai, come quelle del funerale di Carlo Alberto Dalla Chiesa o della scorta di Borsellino, quando la città rompe i cordoni di polizia per partecipare alle esequie ed è il momento in cui Palermo apre gli occhi. Per mixare le nostre immagini con quelle, come accade in un film bellissimo come Milk, abbiamo girato con videocamere d’epoca, per esempio una Betacam del ‘92. Il nostro immaginario di quegli anni è la televisione.
Oggi la mafia è molto cambiata. Come la vede rispetto a quella di quegli anni?
Oggi certi discorsi di certi politici del Nord ricordano quelli dei politici siciliani di allora che non volevano ammettere l’esistenza della mafia. Che ora è meno potente rispetto agli anni ‘70, ma questo non vuol dire che la lotta non debba continuare a oltranza. Anzi, la mafia più pericolosa, si dice, è quella silenziosa. Lo Stato ci deve essere. Negli anni passati tutta l’attenzione era verso la mafia, oggi verso la camorra.
È ottimista?
Voglio esserlo. Falcone e Borsellino erano isolati ed ecco perché è successo quello che è successo. Ora le cose sono migliorate e un Vito Ciancimino farebbe fatica a vivere. Un’associazione come Addio Pizzo, a cui anche noi abbiamo aderito, raccoglie 800 negozianti palermitani che non pagano il pizzo: hanno attaccato l’adesivo sulla vetrina e i mafiosi li lasciano stare per evitare rogne. Oggi lo Stato c’è un po’ di più. Anche noi abbiamo deciso di non pagare il pizzo, d’accordo con i produttori e abbiamo girato per 4 settimane a Palermo. Nessuno ci ha chiesto nulla. È cambiata la mentalità rispetto a quella dei miei genitori che erano rassegnati. Ma per farlo bisogna essere un gruppo e senza un leader, perché se c’è un leader lo eliminano. Ma se non ci fosse stato Peppino Impastato non saremmo qua, stiamo raccogliendo i frutti del sacrificio degli altri.
Come ha trovato il giusto equilibrio tra satira e impegno?
Arrivando dal mondo delle Iene so per esperienza che con la satira si attira molta più gente e specialmente i più giovani. Parti con lo scherzo e poi arriva il cazzotto in faccia. L’importante è che la satira non offende la tragedia.
Come affronterà il concorso di Torino?
Non dormo la notte da circa un mese. Torino è un festival concreto, dove non c’è il red carpet che distrae e i film sono la cosa principale.
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