Pier Giorgio Bellocchio: “un produttore che non faccia esordire almeno due registi all’anno dovrebbe essere obbligato a chiudere”

Il produttore e attore a #Giffoni54 riceve il Giffoni Award e si racconta nel suo doppio ruolo: “sono per le opere prime, ma anche con un approccio cinico: se fai un film e non raggiungi pubblico e critica, è meglio tu faccia un altro mestiere”


GIFFONIPier Giorgio Bellocchio è attore, è produttore, è padre, e figlio di Marco Bellocchio. Tutte queste cose fanno l’uomo, l’interprete e il cacciatore di umanità prima che di storie per il grande schermo. Con questo spirito, con uno slancio che vibra di autenticità, Bellocchio – insignito anche del Giffoni Award a #Giffoni54 – si racconta, con franchezza, non senza poesia, con una densità pragmatica che accarezza il realismo del mondo del cinema, senza retorica e con molta, e apprezzabile, concretezza.

Non fa un giro immenso e poi non ritorna, ma la geometria dell’affermazione è dritta: se si decide di fare l’attore “bisogna coltivare un piano B, non un’alternativa ma un interesse effettivo”.

Soprattutto quando era più giovane – adesso ha appena compiuto 50 anni – ricorda si sentisse ripetere che “per fare l’attore ci vuole vocazione” ma Bellocchio non ha dubbi che, per fare l’attore “ci vuole fede, per resistere, e la mia personale maniera di costruirmi una vita che non fosse totalmente dipendente dagli altri – com’è quella dell’attore -, una condizione che da giovani è una sfida, poi diventa un peso, ho trovato la maniera di portare avanti una carriera parallela. La mia scelta è produrre film, l’ho fatto a 18 o 19 anni, poi c’è stato un lungo periodo in cui mi sono dedicato di più a recitare, riprendendola in mano 7-8 anni fa in maniera intensa: mi alzo tutto le mattine facendo qualcosa di cui io sono motore. Il consiglio è muoversi con leggerezza, frequentando i luoghi del cinema, consapevoli di una dose necessaria di fortuna: il produttore è l’esatto opposto del dipendere da qualcuno. L’attore è un mestiere deresponsabilizzato: voglio costruirmi una vita di qualità o voglio farmi travolgere da questa convinzione di fare l’attore? Ci sono molti attori travolti dal successo, altri che tirano a campare”.

Bellocchio non tentenna, è certo: “non volevo fare l’attore, ma fare cinema: il nostro è un Paese che non premia i polistrumentisti, ma gli specialisti. A me hanno guardato con sospetto per oltre 30 anni, infatti: è un Paese con un retaggio storico di artisti verticali, a parte Leonardo. È anche vero che da noi non manchi giornata in cui un attore non si butti a scrivere un romanzo, oppure faccia il regista, o che da piccolo sia stato molestato. È un Paese che premia la fuffa: vincere un talent può essere un trampolino. In Italia ci sono due grandi attori, Pietro Taricone e Luca Argentero, che mai però avrebbero pensato di fare l’attore, e dal Grande Fratello è partito tutto. Strutturare te stesso cercando di sviluppare un interesse altro, solido – come nel suo caso – è qualcosa per cui se andrai a recitare, reciterai meglio, perché sarai più centrato, con meno paura. Io, poi, ero ‘il figlio di Bellocchio’, per cui per il mondo voleva vedere la mia discesa, al contrario però”.

E insiste sul fatto che ci sia “da capire se il tuo percorso artistico sia verticale e si rivolga solo agli altri: nel contemporaneo, dove si frammenta il prodotto, senza più la sacralità della sala e del teatro, è ovvio ci sia un approccio che ti deve far domandare come l’attore resisterà e come farà i conti con la realtà, amara. Se vuoi fare l’attore, e quindi farti notare, devi capire cosa ti faccia notare a un certo tipo di occhio: se fai la grande serialità – che io ho fatto -, quella campione di ascolti, è molto difficile che il cinema alto ti prenda in considerazione, perché ti sei costruito intorno un mondo che se poi ti capita Čechov non lo puoi fare, non con lo stesso passo”.

Bellocchio entra poi nel discorso più specifico della produzione e del merito, che non sempre – rispetto al mestiere dell’attore – è qualcosa di essenza oggettiva. Sulla produzione, anzitutto, precisa ci sia da porsi “una domanda: fare produzione o fare il produttore? L’unica maniera per svilupparsi nella produzione è continuare a spingere lì dove si sono trovate delle maniglie, fino a un giorno in cui chiederai a un produttore: ‘se venissi a Roma, me lo fai fare?’. Ci deve essere un investimento su te stesso. Roma è la città dell’audiovisivo e per crescere ci devi passare. Se invece vuoi fare il produttore devi sceglierti una storia, mentre alcuni scelgono i registi, come io amo fare, perché prediligo l’umano, e da lì capire che storia mi racconta; al contrario sono fusioni al freddo, cose più televisive. Il collante profondo di un film è il regista”.

Per la scelta del regista da parte del produttore, Bellocchio spiega di tendere a “uscire dal circolo che conosco. Il tuo investimento economico, anche se piccolo, lo metti in mano al regista: il rapporto, quindi, è la cosa fondamentale, da alimentare cercando di vivere esperienze preliminari, provando a coltivare qualcuno esordiente. I registi alle prime opere è meglio seguirli, dargli continuità. Prima c’è il rapporto umano e poi la loro idea di cinema. È molto soggettivo, personale. Negli ultimi 5 anni la finanza è entrata nel cinema, per cui al vertice di una società di produzione c’è un AD o un DG e i produttori si trovano a essere editor, perché si tratta di aziende a quel punto, non case di produzione; in questo senso s’approccia con scollamento tra produttore e autore. Nelle società piccole o medie ci si incontra: a me, se mi cerchi, m’incontri. E la ricerca nel nostro mondo sta nel far esordire: chiunque produttore non faccia esordire almeno due registi all’anno dovrebbe essere obbligato a chiudere. Sono per le opere prime, ma anche con un approccio cinico: fai un film e non raggiungi pubblico e critica, è meglio tu faccia un altro mestiere; mentre in Italia, se hai fatto un film, anche terribile, a quel punto devi fare almeno un altro film”.

 

 

 

 

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