Dopo il Nastro d’argento come Migliore Commedia, il David e il Globo d’oro come regista esordiente, il 25enne Phaim Bhuiyan con il suo Bangla (2019), che racconta la Roma periferica e multietnica, ottiene il Premio Mario Verdone al Festival del cinema europeo. E’ Carlo Verdone a leggere la motivazione di questo ennesimo riconoscimento a un giovane autore figlio di immigrati bengalesi, nato e cresciuto a Roma, evidenziando la leggerezza, l’originalità, l’umorismo puro di quest’opera prima: “Il suo caso di coscienza sul sesso pre-matrimoniale, proibito dalla religione anche a un musulmano che parla molto romano, si trasforma in una Bollywood al Pigneto”.
Bhuiyan un altro premio che s’aggiunge all’elenco che include anche quello di Miglior film della rassegna Bimbi belli curata da Nanni Moretti.
Quella rassegna ha un pubblico molto esigente e selettivo. Il dibattito sul mio film è stato uno dei migliori tra quelli sostenuti, ma mi ha dato anche ansia. Nanni già alla sua prima domanda mi ha messo subito in difficoltà chiedendomi “Nella stanza di Asia si vede il poster di Trotsky, perché?”. In verità l’avevamo pensato in fase di sceneggiatura ricordando il pasticciere trotskista di Nanni, ma in quel momento dimenticandomene mi sono chiesto che volesse dire quella domanda. E alla fine del dibattito Nanni mi ha detto: “Ti ho visto impreparato”.
Ripercorriamo il percorso che l’ha portata al suo esordio Bangla?
Ho cominciato come regista di videoclip musicali per i rapper di periferia e poi ho collaborato con Zalab, una piccola produzione che faceva una serie di mini documentari, Schegge di Za, con la direzione artistica di Andrea Segre, doc che affrontavano la tematica dell’integrazione e dell’immigrazione, e nel mio piccolo prodotto ho raccontato le seconde generazioni di immigrati. Ho vinto poi una borsa di studio dello IED- Istituto Europeo di Design e ho cominciato a studiare seriamente cinema con una tesi finale che è stata un progetto per la serie tv Yoroi. Ho partecipato successivamente a un programma tv di Rai 2 ‘Nemo, nessuno escluso’ sulle relazioni sentimentali tra le seconde generazioni di immigrati, ho raccontato con le interviste quella che era anche una mia difficoltà. Una volta andato in onda il servizio mi hanno cercato diverse case di produzione, tra cui la Fandango, in particolare Emanuele Scaringi e inaspettatamente mi hanno proposto di realizzare un piccolo film sul tema. Ho scritto il film con Vanessa Picciarelli, una mia docente allo IED che conosceva Scaringi.
Il film prima aveva un altro titolo?
All’origine s’intitolava Joss mama, che in lingua bengalese significa ‘bella zio, ma la produttrice di TimVision Annamaria Morelli ha proposto un altro titolo, Bangla, che era più immediato e riconoscibile.’
Quale è stata la difficoltà più grande che ha incontrato girando Bangla?
Innanzitutto l’età, all’epoca avevo 22 anni e il dilemma era se fare la gavetta, cioè dirigere dei cortometraggi per arrivare preparato al lungometraggio o cogliere con tutti rischi un’occasione unica. Poi l’altra difficoltà è stata, in preproduzione, la sfida dello street casting: trovare e dirigere degli attori non professionisti che rappresentassero la comunità bengalese. La mia fortuna è stata poi di preparare tutto prima che iniziassi le riprese grazie all’equipe e riuscire così a concentrarmi sul set, soprattutto quand’ero in scena. Non potevo infatti dirigere il film nello stesso momento, ma era necessario che qualcuno fosse la mia voce.
Come ha reagito la comunità bengalese alle sue richieste e a vedersi rappresentata?
Ho trovato gli attori e le comparse grazie alle associazioni. All’inizio non sapevo come la comunità bengalese avrebbe reagito al black humour e all’autoironia del film, ma alla fine era contenta che uno di loro fosse arrivato a essere regista. Nel quartiere e in piccoli festival o rassegne ho organizzato proiezioni del film per la comunità che si è sentita orgogliosa di essere protagonista e che un bengalese non facesse lavori umili. Sono anche andato alla moschea e ho parlato con l’imam per capire se alcune scene potevano infastidire la comunità. Ho inoltre portato il film anche in Bangladesh al Dacca Film Festival e mi hanno ringraziato perché mostravo come le prime e le seconde generazioni vivono in Italia, perché gli immigrati che tornano al loro paese non raccontano quasi mai la verità sulla loro condizione modesta.
C’è qualcosa che ha sacrificato nella sceneggiatura?
Per ottimizzare i tempi abbiamo tagliato delle scene, altre le abbiamo rielaborate . Il film è stato girato in quattro settimane, una sfida, ma lavorare con ritmi veloci mi ha aiutato molto.
Torpignattara è il suo quartiere, il suo mondo, e nel film non è forse il terzo personaggio?
Sì, un protagonista assoluto. L’idea era di raccontare una Roma diversa, non sempre mostrata. Pasolini è stato il primo a raccontare il quartiere in Accattone, l’idea di mostrarlo di nuovo con i cambiamenti avvenuti mi piaceva. La mia periferia non è quella che spesso viene raccontata con toni più duri e drammatici, a volte con il genere criminale. Dopo i fatti del Bataclan, Torpignattara è stato preso di mira come un quartiere pericoloso, e ho voluto così darne una visione diversa.
Quanto ha incassato il film?
260mila euro, con 67 copie distribuite e uscendo a metà maggio del 2019, durante il periodo del festival di Cannes. Dopo quattro mesi il film è andato su Rai e in prima serata. Poi è stato preso in più di sessanta festival, e accolto molto bene. All’inizio pensavo che il film sarebbe stato visto come un’opera prettamente romana e invece il pubblico rideva di fronte a temi che erano universali
I suoi genitori che pensano di un figlio regista?
La mia famiglia non mi ha fatto tanti complimenti, mi tiene con i piedi per terra, è molto contenta ma all’inizio era preoccupata del mio futuro. Non abbiamo mai avuto modo di conversare del film, a casa è stato sempre un tabù parlare di amore ma dopo il film la situazione si sta sciogliendo.
Quale opera seconda è in cantiere?
Sto lavorando con Fandango allo sviluppo di due progetti simili ma con declinazioni diverse. Di sicuro non riguardano Roma, ma una città del sud Italia e il tema sarà svolto in una chiave più seria e drammatica, rimanendo nel genere commedia e potrebbe ritornare la comunità bengalese.
Quale genere di cinema ama?
Difficile rispondere. Da piccolo sono cresciuto con i film di Bollywood perché mia madre per farmi mangiare mi faceva vedere questi film di cui affittava le videocassette. Poi ho conosciuto il cinema neorealista, quello di Pasolini, Fellini. Tra i film che mi hanno stimolato Il sorpasso e il primo Rocky. Mi piace il cinema di Spielberg, De Palma, Scorsese, Mendes, ma il mio gusto cambia di giorno in giorno.
Il Festival del cinema europeo ha presentato una web serie antologica di 9 cortometraggi prodotta nell’ambito del progetto di cooperazione transfrontaliera CIRCE e 19 corti realizzati nell’ambito dei progetti di cooperazione transfrontaliera CIRCE e CIAK
Ulivo d’Oro “Premio Cristina Soldano” a Twelve Thousand di Nadége Trebal, Premio SNGCI per il Migliore Attore Europeo a Corinna Harfouch per Lara di Jan-Ole Gerster, Premio FIPRESCI a La belle indifference di Kivanc Sezer, Premio Cineuropa a Open Door di Florenc Papas, Premio Emidio Greco a Amateur di Simone Bozzelli,
“Speriamo di uscire tra fine gennaio e febbraio. Abbiamo aspettato un anno, faremo il possibile per essere in sala visto che il film è stato concepito per il grande schermo". L'artista romano girerà a fine marzo la serie tv Vita di Carlo, a febbraio è atteso "La carezza della memoria", il suo nuovo libro pubblicato da Bompiani
“Nel tempo che stiamo vivendo, ho bisogno dell’azione, dell’elemento fisico della creazione cinematografica. Temo che rimarremo confinati per qualche mese e la cosa non mi piace”, dice via Zoom il regista francese, cui il Festival di Lecce dedica la sezione ‘I protagonisti del cinema europeo’, conferendogli l’Ulivo d’oro