VENEZIA – “Tutto è iniziato su una barca nel 1965”. La storia del regista 80enne Peter Weir, artefice di alcuni capolavori della storia del cinema, inizia come quella di un qualsiasi migrante, in viaggio verso un futuro migliore. “Avevo lasciato l’università per venire qui in Europa. – racconta nella masterclass che anticipa di un giorno il momento in cui riceverà il Leone d’Oro alla Carriera di Venezia 81. – All’epoca il modo più economico per viaggiare dall’Australia era la nave: 5 settimane in mare con 700 passeggeri e nessuna forma di intrattenimento. Nella nave, però, c’era un piccolo studio televisivo con una telecamera che serviva al capitano per comunicare in caso di emergenza. Con alcuni amici abbiamo scritto una commedia e abbiamo deciso di fare uno show per intrattenere i passeggeri. Quando siamo scesi dalla nave mi sono detto che avrei lavorato nel settore dell’intrattenimento. Ho provato a recitare, scrivere, dirigere. Ho scoperto che la cosa che riuscivo a fare meglio era realizzare dei piccoli film e ho trovato lavoro in uno studio televisivo”.
Nella lunga conversazione, Weir ripercorre la sua filmografia, che seppur non smisurata, è piena di film memorabili. Ricordiamo ad esempio, il successo internazionale di Picnic ad Hanging Rock (1975), che portò un grande interesse nei suoi confronti – anche di nomi del calibro di Kubrick – aprendogli le porte di Hollywood. Porte che, però, tardò a varcare. “Soprattutto con i film americani dicevo di no al mio agente e poi aspettavo. – spiega – Se continuavo a pensare alla sceneggiatura la notte, come se fosse un sogno, allora richiamavo il mio agente per dirgli che avevo cambiato idea. Lui, per fortuna lo sapeva, e non comunicava il mio primo rifiuto alle produzioni. Questa cosa è successa sia con L’attimo fuggente che con The Truman Show”.
Il regista australiano, recentemente insignito del Premio Oscar alla carriera, entra nel dettaglio dei suoi processi creativi: “Prima di cominciare, nella mia testa ho delle immagini come quelle di un trailer, che io amo quando sono fatti bene. Quando riesco a visualizzare il trailer, prendo le immagini migliori che la mia immaginazione è riuscita e generare e ne parlo con l’operatore di camera e il direttore della fotografia. Poi divido le scene in A e B. Le prime devono essere girate alla perfezione, le seconde si possono fare velocemente. Il Picnic, per esempio, era una scena A. La luce giusta c’era solo per un’ora al giorno. Ci abbiamo messo sei giorni per completare la scena, ma era necessario”.
Spazio anche per gli aspetti non direttamente legati alla regia, come quello musicale: “Credo che la musica sia fondamentale: prima dei graffiti c’è stata sicuramente la musica. La ascolto quando lavoro alla sceneggiatura, in macchina, mi fa entrare in una sorta di trance, va oltre l’intelletto perché la cosa più difficile è liberarsi del nostro lato razionale”. O la fase di montaggio: “Io in genere, quando si arriva al montaggio sono già stanco: dico al montatore di tagliare tutto e fare come se il film fosse suo. Torno dopo qualche settimana e provo a vederlo: è da lì che il processo ha inizio. Guardo il montaggio in silenzio, senza audio. In America, poi, ho imparato a guardare il film davanti al pubblico, lì si suda davvero, ma è molto utile. Se c’è qualcosa che non funziona lo capisci subito e sai che devi trovare una soluzione”.
C’è poi spazio per alcune domande da parte del pubblico, con cui il cineasta interagisce direttamente, scendendo dal palco e muovendosi in platea per parlare occhi negli occhi con i propri interlocutori. Quale è la scena più bella che ha diretto? “Recentemente ho pensato che il momento migliore del mio cinema è in Fearless, che in molti non conoscono. L’aereo sta per schiantarsi e Jeff Bridges parla con il bambino: sdraiati, poggia la testa, è tutto meraviglioso”.
Come era il rapporto con Robin Williams e Jim Carrey, due attori comici a cui ha offerto dei ruoli atipici per loro? “Ho sempre fatto molta commedia e con loro dicevamo tante battute, inventavamo cose – risponde – Jim era molto nervoso, quando ci siamo incontrati. Ma quando gli ho detto che pensavo di mettere una camera dietro lo specchio del bagno, siamo andati subito nel suo bagno e lui ha iniziato a improvvisare, fare delle facce buffe e delle smorfie. Ci conoscevamo da appena 10 minuti. Lo stesso è accaduto con Robin: gli dicevo che avrebbe dovuto smorzare la sua recitazione perché era sempre sopra le righe. Dicevo: fai solo piccoli gesti, solleva un sopracciglio senza perdere il tuo carisma”.
Infine, quale consiglio darebbe a chi vuole iniziare il mestiere di regista? “Un foglio di carta funziona molto di più di una telecamera. Lo dico anche nei corsi di regia: togliete tutte le camere e raccontatemi qualcosa che vi è accaduta stamattina, qualsiasi cosa. È una palestra per l’immaginazione, che è la prima cosa che devi imparare a far funzionare. Vuoi fare il regista? Inizia a scrivere!”.
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