BOLZANO – Dopo il debutto all’IDFA di Amsterdam e un tour festivaliero tra prestigiose rassegne italiane, Personale di Carmen Trocker è approdato al Bolzano Film Festival Bozen. Il documentario della regista altotesina è un’indagine attenta dietro le quinte del mondo del turismo e degli Hotel. Seguendo passo passo le giornate frenetiche del personale di un Hotel tra le Dolomiti, Trocker inquadra contraddizioni e cortocircuiti di un turismo di lusso sorretto sul lavoro degli addetti alle pulizie, perlopiù donne, perlopiù immigrate. Quello degli housekeeping è infatti un mondo invisibile e spesso ignorato, ma come le cucine dei grandi e piccoli ristoranti, racconta l’altra faccia del capitalismo. Per questo Trocker ha deciso di capovolgere la narrazione: scompaiono dallo schermo gli “ospiti”, ma resta la sporcizia che si lasciano dietro, quando il soggiorno finisce e inizia il lavoro del Personale. Un affresco corale e rispettoso, realizzato grazie al rapporto di fiducia nato tra la regista e un gruppo di housekeeping. “Erano troppo impegnate a lavorare per preoccuparsi davvero della mia presenza”, ha raccontato a CinecittàNews Carmen Trocker.
Perché hai deciso di raccontare il lavoro del personale d’Hotel?
Sono cresciuta in un paese trasformato dal turismo, un tema che mi accompagna da sempre. L’industria turistica, per esistere ai ritmi attuali, dipende da lavoratori migranti, ma nessuno ne parla. La pubblicità degli Hotel, soprattutto nelle zone di montagna, vende un concetto fasullo di autenticità; questi sono lavoratori sono invisibili. Ho voluto raccontare il turismo dalla loro prospettiva, scegliendo un hotel come simbolo: oggi sono isole autosufficienti, con ristoranti, saune, palestre, dove gli ospiti non hanno più contatto con il paese in cui si trovano. Nella gerarchia dell’hotel, l’housekeeping è il livello più basso, il più nascosto. Mostrare questa macchina attraverso i loro occhi mi sembrava un’idea potente.
Mi ha colpito la durezza con cui interagiscono tra loro durante il lavoro. È un aspetto che ti ha sorpreso mentre giravate?
Il loro lavoro è frenetico, strutturato a incastro: se uno è lento, il team rallenta. Questa pressione crea momenti di durezza, che all’inizio mi scioccavano. Col tempo, però, conoscendoli, ho visto anche tanta tenerezza, solidarietà e complicità. Non c’era nessuno che considerassi “cattivo”: erano tutti umani, con sfaccettature.
Come hai gestito le riprese per non disturbare il lavoro del personale e per catturare l’autenticità di questa frenesia?
Non riprendevo io: avevo una camerawoman polacca e una soundwoman austriaca, entrambe eccellenti. Siamo state lì per mesi, tornando spesso. All’inizio erano sorprese che volessi raccontare la loro storia, ma il mio interesse costante le ha fatte sentire valorizzate. Creavamo fiducia: la camerawoman polacca ha costruito un legame naturale con loro, molte delle quali provengono proprio dall’Europa dell’Est. Ci adattavamo ai loro ritmi. Se qualcuno non voleva essere filmato, uscivamo. Dopo un paio di giorni, non ci notavano più: erano troppo prese dal lavoro.
Hanno visto il film? Come hanno vissuto trovarsi sul grande schermo?
Sì, l’hanno visto due volte: prima della première e poi un anno dopo. Ridevano, curiosi, come se guardassero un video di famiglia. Non erano né imbarazzati né esaltati: si sono riconosciuti nella loro realtà. Alcune scene, come quella della governante severa, temevo fossero troppo dure, ma non le hanno disturbate. Il complimento più bello è stato che si sono sentiti rappresentati davvero. È la loro vita, nel bene e nel male. Non hanno fatto grandi riflessioni politiche, ma sanno che il film valorizza il loro lavoro, mostrando quanto sia duro e invisibile. L’unica critica, amichevole, è che avrei potuto mostrare più “confusione”: lo sporco lasciato dagli ospiti, che nel film è solo il 20% di ciò che vedono. Hanno ragione, ma era difficile filmarlo: non entravamo nelle stanze occupate per privacy, solo dopo il check-out.
Attraverso il suono racconti il lavoro di questi “lavoratori invisibili”: le sedie che vengono spostate, le lenzuola che vengono cambiate, un inferno di suoni ripetuti giorno dopo giorno. Come sei arrivata a trovare nel suono l’emblema delle loro giornate frenetiche e ripetitive?
Durante le ricerche, aspettavo nei corridoi e sentivo i rumori: carrelli, aspirapolvere. In lavanderia, le lavatrici producevano suoni brutali, che stressano chi ci lavora tutto il giorno. Ho capito che il suono è una narrazione potente. Abbiamo lavorato sei settimane sul sound design, usando suoni fuori campo per guidare l’attenzione. Fin dall’inizio sapevamo di voler raccontare col suono, non con la musica: il suono stesso è musica.
Quanto di ciò vediamo l’avevi pianificato o previsto e quanto invece ti ha costretto a cambiare direzione lavorando a stretto contatto con loro ogni giorno?
Sapevamo che il lavoro è ciclico, come una lavatrice che gira senza sosta, quindi avevamo un piano: luoghi chiave, come dove parlano tra loro, e momenti strutturati per creare un cerchio narrativo. Ma ogni giorno ripensavamo la drammaturgia: dove andare, cosa filmare. Lo spazio era piccolo, il tempo intenso. Col tempo, ci siamo spostati un po’ da una struttura rigida verso le persone: loro erano la vera forza. L’idea iniziale, una metafora del capitalismo che si autoalimenta con qualcuno sempre “sotto”, è rimasta, ma le persone hanno preso il sopravvento. Decidevamo al momento cosa tenere, a volte bene, a volte no. È stata una disciplina dura, ma il materiale umano era potente.
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