Pasquale Scimeca racconta “l’epopea umana” di Terranova e Mancuso

Abbiamo intervistato il regista del film 'Il giudice e il boss', presentato in anteprima mondiale al 70° Taormina Film Festival. Nei panni di Cesare Terranova e di Lenin Mancuso troviamo Gaetano Bruno e Peppino Mazzotta


TAORMINA – Prima di Falcone e Borsellino, prima di Riina e Messina Denaro, ci sono stati Cesare Terranova e Luciano Liggio, Il giudice e il boss raccontati nel nuovo film di Pasquale Scimeca. Presentato in anteprima mondiale al 70° Taormina Film Festival, il film si avvale di un cast di interpreti siciliani di primo livello, quali Gaetano Bruno, Claudio Castrogiovanni, Peppino Mazzotta, Naike Anna Silipo, Enrico Lo Verso e tanti altri, per portare agli onori della cronaca le vicende del magistrato che fondò le basi dell’antimafia, permettendo a coloro che verranno dopo di lui di camminare su una strada già tracciata.

Al fianco del maresciallo di polizia Lenin Mancuso (Peppino Mazzotta), Terranova (Gaetano Bruno) si impegna in una lotta epica contro il male, incarnato dagli spietati mafiosi che fanno la spola tra Palermo e Corleone. Una vicenda di coraggio e violenza che culmina con lo storico processo di Bari del 1969. Seppure fallimentare, fu un passaggio storico per l’evoluzione della lotta alla mafia, che portò, un decennio dopo, alla tragica esecuzione dello stesso giudice Terranova, ucciso vigliaccamente insieme al suo fedele collega e amico Mancuso nel 1979.

Pasquale Scimeca, è stato molto bello vedere un film che recupera la memoria storica di un personaggio importantissimo, che forse è stato un po’ messo da parte dall’inevitabile popolarità di Falcone e Borsellino. Una figura imprescindibile ma anche sfortunata, in quella che è stata la sua parabola.

È più facile raccontare le cose strutturate, la contemporaneità: Falcone, Borsellino e tutto quello che ne è seguito, le grandi stragi. Ed è ancora più facile andare indietro a quando la mafia era un fatto, diciamo, agricolo, ai tempi di Rosi e Giuliano. Il problema di Terranova, di Lenin Mancuso, che ha collaborato con lui per 20 anni, e dei poliziotti che hanno fatto le indagini, è che rappresentano un po’ la via di mezzo, la transizione della storia della mafia e anche dell’antimafia. La mafia di Luciano Liggio esce dal feudo, dalle campagne e si trasferisce nelle città, in quelle siciliane e in quelle del nord. L’antimafia di Terranova e Mancuso si trova di fronte a una cosa nuova, che prima non esisteva, una mafia che traffica nelle sostanze stupefacenti e si arricchisce, anche con le speculazioni edilizie, ma soprattutto inizia a intrattenere rapporti con la politica da una parte e l’economia dall’altra. La massa di denaro è tale che per riciclarla sono costretti a darla alla politica.

Dalla lupara al mitra. Nel film racconta questa nuova “fase gangsteristica”, che restituisce un’epica in stile Il padrino.

È esattamente quello che è successo, non ci sono invenzioni storiche. Restituisce il senso di questa transizione. Luciano Liggio si impone come capomafia, uccidendo il vecchio boss Michele Navarra, perché lui ha imparato da Vincent Collura, che veniva dall’America, il sistema gangsteristico statunitense. Collura gli diceva: in una pistola hai sei colpi, in un fucile a canne mozze hai due colpi, io ti do un mitra Thompson che spara trenta colpi al secondo. Chi si può contrapporre a te? Questo significa diverse cose: la mafia che cambia e si adegua ai tempi moderni, il rapporto diretto con l’America da cui deriva il grande traffico di stupefacenti.

Che aumenta la posta in gioco.

E che gli dà il denaro per corrompere tutti.

Perché si è concentrato così tanto sull’aspetto umano del giudice, sia nel suo rapporto con Lenin che con la moglie. Forse perché non va dimenticato quanto hanno sacrificato?

Il problema è semplice. Ho scritto la sceneggiatura con Attilio Bolzoni, che è un grande giornalista che si è occupato per quarant’anni di mafia e che ha scritto Il capo dei capi. Avevamo due fonti: la cronaca e la storia. Il lavoro che devi fare come cineasta è raccontare il racconto, che è la fusione di cronaca e storia, in epopea. Per farlo non ti puoi limitare a fare il santino Terranova, ma devi fare entrare questi personaggi dentro una dimensione umana vera, dove la forza, il coraggio, la determinazione si uniscono all’angoscia, alla paura per te e i tuoi familiari. Terranova e Mancuso erano costretti a trascurare la famiglia e gli affetti. Raccontare queste cose ti aiuta a raccontare l’epopea e, soprattutto, rendere veri i personaggi e non dare allo spettatore l’immagine di un santino, in cui quelli sono bravi e quelli sono cattivi.

La lotta di Terranova viene descritta come una battaglia contro i mulini al vento. Voi cineasti, invece, avete l’onere di entrare nel cuore delle persone e impattare sulla loro mentalità.

Un cineasta ha sempre la responsabilità di quello che fa. Non puoi tirarti fuori dicendo io ho fatto una cosa bella e il pubblico che decide. È sbagliato. Tra i miei punti di riferimento nel cinema è un grande cineasta brasiliano Glauber Rocha, uno di quelli che ha inventato il cinema novo brasilero. Lui diceva una cosa che mi ha colpito quando ero ragazzo e continua a colpirmi adesso: una cinepresa è un mitra che spara 24 fotogrammi al secondo.

Molto a tema, tra l’altro.

Esatto. Io in mano ho un’arma. A chi sto sparando? Agli uccellini? O cerco di colpire chi vede il film, costringendolo a pensare, a riflettere. Nel film che ho fatto su fratello Biagio c’è una frase: fare un film che sia bello, ma che sia anche utile.

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15 Luglio 2024

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