TORINO – La nuova vita di un testimone di giustizia, lo spaesamento, la rinascita e la redenzione, sono i protagonisti di Paradise di Davide Del Degan, al TFF (nella sezione After Hours) e nelle sale dalla prossima primavera con Fandango. Una commedia “stranita”, si legge sul catalogo del festival, definizione che al regista è piaciuta a tal punto da decidere di adottarla per tutte le presentazioni del film. Protagonista è un uomo ordinario che fa una scelta straordinaria: Calogero (Vincenzo Nemolato), un venditore di granite siciliano che assiste ad un omicidio di mafia e decide di testimoniare. Viene così inserito nel programma di protezione testimoni e spedito tra le montagne del Friuli, a Sauris, lontano dalla sua famiglia che non ha voluto seguirlo, e dalla figlia che sta per nascere, in un villaggio sperso nella neve, isolato dal mondo, in una realtà completamente diversa da quella che fino a quel momento conosceva. La sua scelta coraggiosa, dal forte valore civico e morale, lo costringe a un cambiamento radicale che stravolge per sempre il suo percorso di vita.
“Io e lo sceneggiatore Andrea Magnani cercavamo una storia che ci rappresentasse che parlasse di quella necessità di cambiamento, delle seconde opportunità, della voglia di rivincita o di reinvenzione che sentivamo attorno a noi e anche dentro di noi”, racconta Davide Del Degan. “Così ci siamo avvicinati a questo personaggio, con tutto il rispetto che la natura stessa della storia richiedeva, cercando di dare al racconto un punto di vista che potesse sorprendere noi per primi, con la voglia di giocare con l’ironia e con uno sguardo che permetta allo spettatore di sorridere amaramente, di divertirsi ma anche riflettere sui valori morali che la storia contiene”.
Un arrivo in paese crea altro scompiglio nella nuova vita di Calogero: il sicario contro cui ha testimoniato è diventato a sua volta un collaboratore di giustizia e, per un errore amministrativo, spedito nella stessa località. Paradossalmente Calogero (che teme a quel punto per la sua vita) è considerato dal killer (Giovanni Calcagno) come un liberatore, colui che gli ha dato l’opportunità di scappare da una vita che non avrebbe voluto e di abbracciare finalmente un nuovo se stesso. Così paradossalmente vicini, i due cominciano a conoscersi e a capire che per loro una nuova vita è possibile.
“Ci siano preparati due settimane prima di iniziare a girare – racconta Vincenzo Nemolato – cercando di mettere da parte i nostri egocentrismi e di metterci a disposizione della storia. Un avvicinamento tra noi ma anche alla storia che è avvenuto in maniera quasi naturale”. Una preparazione che è stata molto utile, anche considerate le avverse condizioni di riprese, come sottolinea Giovanni Calcagno: “Siamo arrivati sul set molto tranquilli, lì è stata, invece, una vera battaglia perché abbiamo girato in luoghi impervi e condizioni climatiche particolarmente proibitive. La preparazione ci è servita per risolvere aspetti su cui non siamo potuti tornare nel vivo delle riprese”.
Rispetto alla scelta della non usuale, né tantomeno comoda, location: “Immaginavamo vari posti e abbiamo fatto diversi sopralluoghi. Poi abbiamo trovato questo paesino incredibile, Sauris, veramente fuori dal mondo e dalla civiltà, difficile da raggiungere, che ha messo a dura prova la produzione del film. Un luogo isolato che ci ha costretto abbandonare tutti i legami personali e i processi che solitamente ci si porta anche sul set. Il primo giorno di riprese, poi, c’e stata un’incredibile tempesta di neve che ci ha lasciati per cinque giorni senza telefono, né elettricità, e con le strade di collegamento isolate da frane. Questo però ci ha permesso di avvicinarci all’isolamento e alla perdita profonda che i personaggi portavano con sé”.
Tra i momenti più esilaranti del film il goffo approccio dei due protagonisti con lo Schuhplattler, la tipica danza tirolese per soli uomini. “Una follia che ci era stata proposta già in fase di provino – racconta Giovanni Calcagno. Siamo stati supportarti da un gruppo di persone che ci hanno introdotto alla grande cultura di questa danza collettiva. Una filosofia di danza così rude, diretta e animalesca che completa il quadro della potenza della natura e dell’ambiente in cui i personaggi si trovano sballottati ed estranei”.
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