Paolo Virzì: “In sala mi nascondo e spio le facce di chi guarda i miei film”

Dal 26 luglio al 1° agosto si riaccendono i riflettori sull'isola pontina con il Ventotene Film Festival, l’iniziativa ideata e diretta da Loredana Commonara. Quest'anno Paolo Virzì riceve il Premio Vento d’Europa, sotto l'alto Patrocinio del Parlamento Europeo. Ecco la nostra intervista


VENTOTENE – Sono passati quasi 30 anni da Ferie d’agosto del 1996 diretto da Paolo Virzì e quest’anno il regista torna sull’isola di Ventotene per presentare al pubblico del Ventotene Film Festival, il “secondo tempo” della commedia dolceamara delle due famiglie agli antipodi più famose d’Italia: i Mazzalupi e i Molino. Tra adolescenti ormai cresciuti e adulti sempre più invecchiati, Virzì ci racconta in un’intervista alcuni aneddoti sul suo Un altro Ferragosto uscito il 7 marzo 2024 al cinema con 01 Distribution ed ora disponibile su Netflix.

Per anni le è stato chiesto di riprendere in mano il progetto di Ferie d’agosto e farne un sequel: suo fratello, produttori, gli spettatori. Cosa la frenava? 

L’idea del sequel in sé. In effetti quello che poi è venuto fuori alla fine più che un sequel è una saga che si epiloga, sia dal punto di vista esistenziale che di apologo morale e civile di quell’Italia. Quindi il fatto che il tempo sia passato diventa elemento narrativo ed è stato possibile raccontare il tema della morte di certi personaggi. Le vicissitudini familiari si concludono e allo stesso tempo c’è anche la fine di quell’idea di convivenza che pure nella rissa aveva contraddistinto l’Italia con lo smarrirsi delle ragioni con un significato più tragico ma per me più sfidante.

Perché l’estate? È una cornice che ritorna spesso nella sua poetica e nel cinema italiano in generale. Dopotutto a livello narrativo c’è una mitologia particolare legata all’estate. Che legame ha con questa stagione? 

È vero! Tu lo dai per scontato ma non è affatto così. Stai dicendo una cosa giusta, ponderata e non banale. Ci sono dei capolavori come Domenica d’agosto di Luciano Emmer del 1950 che basa la sua idea proprio sul momento della vacanza. La commedia di villeggiatura è a suo modo un genere nobile che viene da Anton Čechov. La vacanza è quel momento dove si trova riposo e sollievo quindi in realtà anche dello smarrimento e dell’interrogazione sul senso della propria vita. È un occasione di narrazione scherzosa ma allo stesso tempo ti dà la possibilità di mescolarla con elementi più dolenti e amari.

In un’intervista ha detto che non riguarda mai i suoi film perché la fanno soffrire. Cosa intende e cosa la fa soffrire? 

Sono sempre insoddisfatto di quello che faccio e mi viene voglia di cambiarlo, ma non penso di essere il solo. Credo che la maggior parte dei miei colleghi abbia questa inclinazione. Guarda l’esempio di Orson Welles, se per caso era in sala e rimandavano in proiezione un suo vecchio film, lui saliva in cabina di proiezione con la taglierina e cambiava delle sequenze. Questo perché non sei mai contento e quando finisci un film è perché te lo levano di mano perché deve andare in sala e tu invece non finiresti mai di lavorarci sopra. Poi non è che non li guardo, li spio! Se mi capita di essere a una proiezione, come quella di stasera, tendo a spiare le persone e osservare le facce di chi guarda i miei film. Mi nascondo dietro uno stipite e cerco di intravederli. Per me è come avere una sorta di pudore, come se nel film ci fosse una mia colonscopia, è qualcosa di molto viscerale.

E le recensioni invece le legge?

Sì sì! Con i miei primi film tendevo a leggerle sempre tutte, soprattutto quelle meno indulgenti e più severe. Mi arrabbiavo ma cercavo un’energia dalla critica e dalla polemica, per me era una risorsa. Adesso invece seleziono e, ti devo dire la verità, mi incuriosiscono soprattutto le recensioni che arrivano dai social, i blog ecc. Sento che si tratta di uno sguardo nuovo con un modo di raccontare che mi sorprende. Mi diverte sentire la nuova generazione di ventenni.

E cosa hanno da dire?

Sento che hanno delle inadeguatezze magari. Sembra che tutto capiti a loro per la prima volta con un enfasi incredibile. Mi piace questo entusiasmo, è il respiro divino che ci illumina e ci fa vivere, allora io mi abbevero di quell’entusiasmo.

In Un altro ferragosto vediamo che le disfunzionalità famigliari sono rimaste più o meno le stesse, e pure io nella sua poetica riesco a percepire una positività di fondo.

Anche quando racconto la persona meschina e deprecabile, lo faccio sempre per compassione, altrimenti non farei nemmeno lo sforzo di raccontarla se dentro non ci fosse la pietas e il desiderio di comprendere. Per me è un tema sfidante. Ad esempio quando uscì La caduta-Gli ultimi giorni di Hitler del 2004 diretto da Oliver Hirschbiegel con Bruno Ganz, ci furono delle polemiche e Wim Wenders disse: “Non si può raccontare Hitler perché nel momento in cui racconti devi per forza provare delle emozioni”. In quel film, invece, grazie al grande Ganz, si riesce a provare quasi compassione per Hitler. Allora la domanda è: “Si riesce a provare pena per Hitler?” Io penso di sì e che lo sforzo del narrare è quello di non essere mai manichei ma di affondare le proprie scarpe nel fango e nella merda della vita. Riuscire a provare pena anche per l’essere più abominevole. Quindi non troverai mai in un mio film qualcuno che è veramente solo una carogna.

Quali sono stati i più grandi cambiamenti nella sua visione autoriale da Ferie d’agosto ad oggi? 

Dimmelo te che sei un’esegeta e una studiosa. Nel bene e nel male chi fa questo mestiere si nutre di una sorta di puerile impulso infantile che lo porta a bloccarsi con il teatrino dei burattini e delle marionette, continuando quel giochino che facevi da bambino, come quando da piccolo facevo i teatrini in cameretta, le recite a scuola e poi al liceo gli spettacoli teatrali. Si tratta di un impulso infantile e di conseguenza non mi interrogo sullo stato della mia poetica. Per me fare un film è come starnutire, è una roba che esce fuori e che non puoi frenare. Arriva l’impulso come un rutto quasi (ride ndr.). È un emissione spontanea, incosciente e impulsiva. Certi film li capisco un po’ dopo che li ho fatti e solo perché guardo gli altri. Attraverso lo sguardo degli altri capisco delle cose sui miei film. Anche quest’ultimo film l’ho capito meglio guardando le facce delle persone.

A Venezia guardavamo Siccità e con i colleghi dicevamo “è geniale”, “è folle”.

Sì è folle. È un film sulla fine del mondo perché arrivava in un momento in cui ci siamo fermati tutti. Ci siamo interrogati sul “che ne sarà di noi”. Ho fatto tanti film corali ma quello è un iper-corale addirittura rapsodico con un intrecciarsi di vicende. Collocalo tu per me questo film!

Come vede l’evoluzione delle tecnologie nel cinema? Siccità ad esempio ha un immaginario distopico ma c’è molta autorialità. Come si pone sulla questione dell’AI?

La possibilità di manipolare le immagini per noi è una grande occasione che ci dà delle risorse in più. Io non sono un catastrofista, non ho paura e non sono assolutamente contro le mutazioni tecnologiche. Ora ad esempio stiamo usando il tuo telefono come un microfono ma allo stesso tempo è una videocamera, e ancora, penso che abbia anche il 4K come le camere del cinema. Di conseguenza hai in tasca uno strumento che puoi usare per chiamare, fare selfie e, per raccontare. Quando mi sono avvicinato al Centro Sperimentale da aspirante cineasta, girare una scena voleva dire mettere in piedi tutta una macchina complessa, oggi invece ha un accesso più semplice. Si abbattono delle barriere, quindi alla fine, se hai delle cose da raccontare, puoi farlo. La manipolazione digitale ti permette di fare tantissimo permettendoti di fare delle cose che prima erano impensabili. Quando girai Ferie d’agosto nel 1995 non c’era la possibilità della manipolazione digitale e girai un’inquadratura dove avevo i personaggi di spalle che guardavano il cielo nero e volevo inserire delle stelle. Beh, è stato impossibile. Avremmo dovuto fare degli stacchi su delle truca che facevano sull’internegativo e graffiando la pellicola.

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27 Luglio 2024

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