VENEZIA – Diego Armando Maradona, Federico Fellini, Antonio Capuano… numi tutelari di Paolo Sorrentino che firma il suo “amarcord” personalissimo e coraggioso, in concorso a Venezia 78. E’ stata la mano di Dio “film intimo e personale, romanzo di formazione allegro e coraggioso”.
Al centro lo sguardo di Fabietto (Filippo Scotti, un nuovo talento), alter ego 17enne che nella tumultuosa Napoli degli anni ’80 cerca la sua collocazione nel mondo e deve affrontare la tragedia della morte improvvisa di entrambi i genitori, intossicati dal monossido di carbonio nella villetta di Roccaraso, dove lui non è andato per caso, perché aveva Napoli-Empoli allo stadio. Caso o miracolo, c’è di mezzo “la mano di Dio”, come gli dicono al funerale.
Un film diviso in due parti nettamente distinte: la prima colorata e colorita, caricaturale, felliniana con la descrizione della famiglia allargata, vicini di casa compresi, in tono di commedia. La vitalità della madre (Teresa Saponangelo) che architetta scherzi telefonici e fa giochi di destrezza con le arance, la simpatia malandrina del padre (Toni Servillo), che ha un figlio con un’altra donna ma finisce sempre per tornare con un fischio ed essere perdonato. Una dimensione di leggerezza in cui Fabietto scopre anche il sesso, vagheggiando la zia Patrizia (Luisa Ranieri), svalvolata e forse ninfomane, che vediamo ‘incontrare’ San Gennaro e che finirà in ospedale psichiatrico. La seconda parte, invece, ci mostra il protagonista solo ma mai disperato, alle prese con incontri bizzarri (l’amico contrabbandiere, la vicina di casa baronessa con cui perde la verginità, Antonio Capuano): tutto quello che lo aiuta a capire chi è e la sua vocazione per il cinema che lo porterà a Roma. E il guardare, l’osservare è l’essenza della sua identità. Tanto che, quando i genitori sono già morti, la sua disperazione esplode perché i medici gli impediscono di “vederli”.
“Sono venuto qui al Lido 20 anni fa quando ero all’inizio con L’uomo in più – spiega il regista, Premio Oscar con La grande bellezza – e mi piace pensare che questo sia un nuovo inizio. Questo era un film che non si poteva raccontare come gli altri: bisognava far parlare i sentimenti e le emozioni”. “Io sono stato promosso sul campo da Paolo da fratellone, come normalmente mi definisce, a padre. Venti anni fa – aggiunge Toni Servillo, al Lido anche in Qui rido io e Ariaferma – ero con Paolo ed è capitato nella nostra lunga e proficua collaborazione che mi dicesse che prima o poi avrebbe trovato la distanza giusta per raccontare questo episodio drammatico della sua vita e mi diceva: ‘ti chiederò di fare il padre’. Naturalmente è emozionante ricevere una proposta del genere, però non ci ha mai chiesto di essere esattamente quello che è conservato nel privato della sua memoria. Ci ha dato qualche spunto. Lo spunto più bello che ha dato a Teresa e a me è quello di apparire molto innamorati, perché questo amore è il bagaglio che Fabietto, finito il tempo della spensieratezza, si porterà dietro quando deve camminare con le proprie gambe”.
Come mai ha deciso di affrontare questa vicenda proprio in questo momento della sua carriera e della sua vita?
A un certo punto si fanno i bilanci. Una volta Bukowski disse che ‘gli dei sono stati buoni, l’amore è stato bello e il dolore è arrivato a vagonate’. Così è per me, nella mia vita da ragazzo c’è stato molto amore e anche tanto dolore. Ho compiuto 50 anni e mi è parso di essere abbastanza maturo per affrontare cose tanto personali.
Il titolo arriva da una celebre frase di Maradona, detta ai Mondiali dell’86 per giustificare un gol segnato con la mano.
E’ una bellissima frase, paradossale se detta da un giocatore di calcio che fa riferimento all’unica parte del corpo che non può essere mai usata in campo. La ‘mano di Dio’ è il caso o un potere divino, per chi ci crede e io credo nel potere semi divino di Maradona.
Ha mai parlato di questo progetto direttamente con lui?
No, non era un uomo facilmente accessibile. Avevo desiderato mostrargli il film, ma non c’è più.
E’ vero che che c’è stato un problema legale riguardo al titolo?
Non proprio. Maradona neanche sapeva bene del film, ma è arrivata qualche lamentela dal suo entourage, però niente di concreto.
Cosa ha provato quando è morto il suo mito?
Cosa si prova quando muore una persona? Si chiama lutto e io non sono capace di esprimerlo a parole.
Come ha trovato il bravissimo Filippo Scotti?
Cercavo un attore bravo che quasi si dirigesse da solo. Poi Filippo aveva la stessa timidezza e il senso di inadeguatezza del ragazzo che mi ricordavo di essere stato a 17 anni.
Sorrentino, lei è stato molto coraggioso a mettere in scena una vicenda personale tanto dolorosa.
Nella vita sono pauroso, ma qui si richiedeva un coraggio differente, specie nella scrittura. Sul set le paure sono svanite quasi del tutto perché bisogna affrontare un sacco di problemi concreti.
Il film segna anche una svolta stilistica.
Non poteva essere come gli altri miei film. Doveva essere semplice, essenziale, far parlare i sentimenti e le emozioni. Ho un’immagine ferma della mia adolescenza, per questo la macchina da presa non si muove molto. Alla fine mi sono quasi pentito di averla mossa tanto in passato, tanto le cose vengono comunque. La prima parte del film è ancora debitrice verso quello che facevo prima, siamo in una dimensione onirica, poi mi congelo e il film approda alla sua forma realistica.
Capuano è stato davvero fondamentale nel suo percorso.
Sì, nella massa di cose contraddittorie che mi diceva mi ha colpito una affermazione: avere un dolore non è una patente per essere creativo. È stato molto utile. Lui ama il conflitto e la maggior parte delle cose positive nascono dal conflitto e non dalla pacificazione. Da lui ho appreso una inesauribile vitalità che non ho mai raggiunto, anche se ho tentato di uguagliarlo.
Cosa hanno rappresentato gli anni ’80 per Napoli?
Un periodo meraviglioso con l’avvento di Maradona, e uso la parola ‘avvento’ non a caso perché c’era qualcosa di mistico. Maradona è stato portatore di libertà col suo carisma e il modo di essere.
La Napoli che emerge dal film è una città orgogliosa.
Non sono bravo a dire cosa è Napoli, perché è stato detto tutto e il contrario di tutto. Ma quella Napoli era promiscua e quindi divertente. Andare a Napoli era come fare un safari a piedi, senza la jeep. C’erano animali di ogni genere, la bellezza del sacro, l’erotismo del profano, tutte cose che si tengono insieme secondo leggi misteriose.
Pensa che questo film sarà liberatorio per lei?
Lo spero. Il cinema, come dico nel film, non serve a niente ma distrae. Come il calcio. Quasi nulla serve, a parte i vaccini.
Andrà al Festival di Telluride.
E a San Sebastian. Molti festival me lo stanno chiedendo. Netflix è formidabile, hanno la voglia, la forza e la disponibilità per lanciare il film. Siamo stati tanto chiusi a casa che adesso è un piacere viaggiare. Ma con loro avevo parlato prima della pandemia. Mi era sembrato il luogo giusto, ero rimasto colpito da come avevano lanciato Roma di Cuaron.
Che ricordo ha di Fellini?
Quello che si vede nel film. Veniva sempre a Napoli, all’Hotel Terminus a fare i provini, cercava le facce.
Non dice nulla sulla politica degli anni ’80?
Sono cresciuto in quel periodo ma non ho fatto grandi riflessioni. Posso dire che c’era un modo di divertirsi molto ingenuo, il prendere in giro, gli scherzi telefonici, cose che non esistono più. La politica però non c’entra niente. In questo trovo analogie con quel bellissimo film che è Marx può aspettare di Bellocchio dove si parla di una persona depressa e la politica passa davvero in secondo piano.
È stata la mano di Dio, prodotto da Lorenzo Mieli e Paolo Sorrentino per The Apartment, uscirà in cinema selezionati il 24 novembre e sarà su Netflix il 15 dicembre.
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