“Il mio documentario è nato per rivolgersi al pubblico delle democrazie del mondo occidentale che da decenni, con maggiore o minore intensità, devono confrontarsi col fenomeno migratorio”. Così Paolo Quaregna, regista deLa seconda patria – distribuito da Luce Cinecittà che ha partecipato anche alla produzione – film che racconta un capitolo della storia della enorme emigrazione italiana: quella del Canada, o meglio del Quebec, una delle mete più ‘invase’ da nostri concittadini dalla seconda metà del secolo scorso. La seconda patria fino al 7 agosto è programmato a Torino nella sala Fratelli Marx, il 20 agosto si vedrà al Mantova Film Festival, e altre date si aggiungeranno da settembre.
Quaregna, perché ha scelto di raccontare la comunità italiana del Quebec?
E’ da quasi 30 anni che frequento il Quebec per i miei film ambientati tra e con gli autoctoni della regione. Ciò che mi ha sempre attirato è lo “spirito nomade” di popoli che, per tradizione, vivono di caccia e pesca nel rispetto della natura. Se non c’è cibo ci si mette in marcia per cercarlo in altri luoghi invece di fare la guerra per disputarsi un fazzoletto di terra… In quei viaggi mi è capitato di incontrare molti emigrati italiani: mi hanno colpito soprattutto quelli che sono riusciti ad adattarsi a lavorare in condizioni estreme in quelle stesse terre abitate per secoli soltanto dai “nativi”. Dall’idea di mettere a confronto Johnny Stea, emigrato da Sannicandro di Bari più di 70 anni fa, e Florent Vollant, un musicista Innu leader culturale della sua comunità, è nato il film sugli emigrati che, come i nomadi, vanno in cerca di nuovi territori ove trovare nutrimento.
Come ha selezionato le storie personali, le persone protagoniste del film?
Il “casting” è nato casualmente. Nei frequenti soggiorni a Montreal avevo già avuto modo di conoscere il regista Paul Tana e l’attore Tony Nardi e di apprezzarne il lavoro: ma all’epoca l’approccio con la loro “italianità” era quasi scientifico, antropologico. Nel 2014 l’amica Annalisa D’Orsi, antropologa esperta di nativi americani, mi presentò Johnny Stea che aveva appena chiuso la sua macelleria per godersi una meritata pensione. Nacque un rapporto di stima e ammirazione. Poi, tornando a Montreal recuperai i rapporti con Tana e Nardi, per meglio conoscere non più il loro pensiero, ma l’esperienza vissuta di giovanissimi emigranti all’età di 8-10 anni. Ciascuno di loro mi ha suggerito altri personaggi, sia a Montreal, sia a Sept-Îles, una cittadina 1000 chilometri più a nord, che avevano molto da raccontare. La chiave nel trovare i miei personaggi è stata comunque la ricerca di nomadi e resilienti “minoranze”. Non a caso nell’utilizzo del materiale di repertorio, ha avuto un ruolo importante il documentario di Gianfranco Mingozzi Note su una minoranza (1964), girato tra gli italiani a Montreal. In quella metropoli ci sono sempre state minoranze richiedenti a maggioranze, vere o presunte ma con più potere, maggiore rispetto per la propria cultura: i francofoni nei confronti degli anglofoni, i migranti ultimi arrivati nei confronti di quelli arrivati prima… E poi, più giù, i “nativi” detti anche “prime nazioni” che paradossalmente, arrivati prima di tutti gli altri, vivevano in silenzio e rabbia i maltrattamenti e le discriminazioni subite dai quebecchesi “conquistatori”.
Che cosa l’ha spinta a privilegiare la vicenda di Johnny Stea?
La storia della famiglia Stea, raccontata da Giovanni, che all’età di 13 anni già lasciava la sua terra con l’idea di ritornarci, in una condizione migliore, è esemplare di una vicenda di emigrazione. Johnny è un personaggio pieno di ironia e pronto ad adattarsi a ciò che il “destino” sembra avergli suggerito nelle svolte della vita. Ma il suo racconto sembra quasi “edulcorato” unicamente perché Johnny glissa sui momenti della sua storia la cui difficoltà è facilmente intuibile. Ma la galleria di personaggi propone anche storie di famiglie spezzate dalla lontananza. Quella di Guido, barista a Sept-Îles, il cui padre già sconvolto da guerra e prigionia, cerca l’avventura in terre lontane abbandonando la sua famiglia italiana. O quella di Rita, nata in Canada, ma riportata a forza in Italia dalla madre all’età di 4 anni in occasione della separazione dei genitori. Il lato amaro dell’avventura in terra straniera.
Il documentario è nato come risposta a chi oggi grida alla minaccia degli immigrati e dice “prima gli italiani” senza preoccuparsi dei tanti giovani che lasciano il nostro paese per trovare lavoro?
L’intelligenza, il talento e la bellezza sono equamente distribuite nel mondo, non altrettanto si può dire per l’accumulo di ricchezze e le opportunità lavorative: come stupirsi che migliaia, milioni di persone si mettano in cammino in cerca di migliori opportunità di vita in altre terre? I disagi che il fenomeno porta con sé vanno affrontati in modo progressivo, non certo con le barriere e con slogan ottusi come “prima gli italiani”. Quando nel film si vedono le lavoratrici giornaliere italiane che, all’alba, si stipano nei camion che le portano al lavoro nella Toronto degli anni ’60, che cosa ci viene in mente? Cosa è cambiato, se non il luogo di partenza? Per questo abbiamo scelto come sottotitolo del fim: Quando i migranti siamo noi.
Non crede che tra gli emigranti italiani e i loro figli incontrati ci sia una sorta di spaesamento e risentimento nei confronti dell’Italia?
Certo c’è spaesamento, soprattutto in alcuni dei miei protagonisti: l’emigrato fa sempre i conti con le “incertezze identitarie”. Mi sono imbattuto in casi estremi: a Tony Nardi ventenne, cresciuto in una Montreal di conflitti tra anglofoni e francofoni, la madre ricordava che non era un “vero” italiano. È cresciuto sentendosi sempre “né uno né l’altro”. Passati 35 anni di riflessione sulla propria identità, oggi Tony, dopo aver vissuto a Montreal, New York e Toronto, è un apprezzato attore che recita in perfetto francese, italiano ed inglese: se l’è cavata mica male…
Bruno Tomei invece non parla italiano ma ricorda le ricette di suo padre, originario di Lucca, appassionato di calcio e tifoso della Fiorentina. Cresciuto tra la cultura del padre ed il fascino della vita nella natura (incarnata anche in indimenticabili amicizie con alcuni vicini “nativi”) ha subìto il peggior “trauma identitario” che si possa immaginare. Poco dopo la sua adolescenza, Tomei ha “perso” la sua città natale, Schefferville, nata e sviluppatasi attorno alla miniera di ferro negli anni 50, che è stata letteralmente cancellata dalla carta geografica, poiché la multinazionale proprietaria della miniera decise, nel 1982, che questa non era più redditizia. Poi c’è il racconto che Tana fa di sua madre. Una grande amarezza per dover vivere lontano dalla sua famiglia ma anche, dopo anni, la fierezza di ciò che ha potuto fare grazie al suo adattamento. Tuttavia, alla fine, lo “spaesamento” diventa risentimento nei confronti dell’Italia che si è disinteressata dei suoi figli lontani in una totale indifferenza.
C’era il rischio di un documentario dominato dalla nostalgia e dal rimpianto della terra d’origine, come l’ha evitato?
I campioni di resilienza non possono essere attanagliati dalla nostalgia… Ma come dice Stea “all’italiano ci piace lavorare, e noi si lavorava tanto, nel pensiero, un giorno, di ritornare in Italia”. Un pensiero poi rimandato di anno in anno. Senza parlare del fenomeno opposto dei colleghi del padre di Guido, il barista, capaci di lavorare per 30 anni di fila nei cantieri del Labrador (a -30 di temperatura), per poi licenziarsi e tornare in Italia col gruzzolo. Cosa che suo padre non ha fatto, al prezzo di abbandonare la sua “famiglia italiana” e costruirne un’altra in Quebec. Guido non conosce i suoi fratellastri, non è mai stato in Italia se non virtualmente grazie a Google Maps, che gli ha permesso di vedere la casa paterna. Il segreto che traspare dai racconti dei miei “eroi” è il ricordo, è portare nel cuore e nella mente la loro cultura italiana e il saperla fondere con quella di una seconda patria.
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