BERLINO – Nonostante la richiesta ufficiale della cancelliera Angela Merkel al governo iraniano, Jafar Panahi non sarà alla Berlinale per la premiere del suo film in concorso, Pardé – Closed Curtain, il secondo lavoro, dopo This is not a film, girato in condizioni di privazione della libertà artistica e personale. Di nuovo un’opera autobiografica e semiclandestina, realizzata con un gruppo di lavoro ridotto al minimo (4 persone) e con ruoli interscambiabili: sia lui che il co-regista Kamboziya Partovi sono di volta in volta dietro e davanti la macchina da presa creando un gioco tra verità e finzione che sarebbe affascinante se non fosse drammaticamente reale.
Sul cineasta cinquantaduenne, autore del Cerchio e del Palloncino bianco, pesa infatti una condanna che gli impedisce per vent’anni di scrivere e girare, viaggiare all’estero e rilasciare interviste. E’ agli arresti domiciliari, dopo essere stato incarcerato per due volte, scontando mesi di carcere, “graziato” dopo la grande mobilitazione internazionale e il suo sciopero della fame. Il film mostra quanto sia difficile per lui lavorare e quanto sia terribile non lavorare, come spiega Partovi, amico di vecchia data e suo sceneggiatore ai tempi del Cerchio. “Non lavorare significa cadere in depressione, mentre il progetto ci ha appassionati, eravamo felici di averlo scritto, siamo stati felici di girarlo in quella villa sul mare, siamo felici di essere qui, anche se non sappiamo quali potranno essere le conseguenze”.
Naturalmente nessuno lo sa con certezza, ma sta di fatto che alcuni cineasti iraniani hanno preso le distanze da Panahi. Recentemente è apparsa un’intervista in cui un ex collaboratore, rimasto anomino, negava di aver partecipato alle riprese del film che ha portato alla condanna del regista nel 2010. “Un film che non era affatto di critica al governo, perché raccontava la storia di una famiglia”, precisa Partovi. Ma ci sono anche tanti che vogliono lavorare con Panahi nonostante l’ostracismo delle autorità. Come Maryam Moghadam, la giovane attrice di Closed Curtain, che vive a Londra: “Ci ho messo appena un minuto a dire di sì, mentre un’altra attrice aveva rinunciato poco prima delle riprese. Essere in un suo film è una cosa importante e in questo caso è anche un modo per dare voce a un mondo di silenzio, perché vale sempre la pena di scostare un poco le tende per guardare all’interno”. E aggiunge: “Il mio personaggio è una ragazza come tante nel mio paese, ma rappresenta anche il lato oscuro, la disperazione di ognuno di noi e soprattutto del regista”. E l’ombra di un suicidio si allunga cupa in varie scene.
Nel film, che ha gli accenti di giallo e un andamento da caméra stylo, Maryam piomba all’improvviso e misteriosamente nella villa dove uno scrittore (Partovi) si è rifugiato per lavorare e dove le grandi finestre che danno sul mare invernale sono tutte oscurate. Fuori la polizia sta cercando qualcuno. E l’uomo teme anche che possa accadere qualcosa al suo dolcissimo cagnolino Boy, che rischia la vita in un paese dove i cani sono stati dichiarati impuri. E infatti alla tv vediamo le immagini (vere) di questi animali massacrati pubblicamente. Ma la vicenda si complica con l’arrivo nella casa del legittimo proprietario, un famoso regista (lo stesso Panahi): ora i due personaggi che abbiamo visto in azione nella prima parte si rivelano immaginari in un continuo e forse troppo insistito gioco di specchi. Dunque un film molto diverso dai precedenti? “Closed Curtain è frutto delle condizioni inusuali in cui è girato, in fondo è come se Jafar avesse preso appunti con la videocamera e il telefonino anziché scriverli sulla carta. I suoi film, di solito, parlavano di altre persone, questo film parla di lui stesso, l’unica cosa di cui oggi può raccontare”. Nonostante qualche perplessità nell’accoglienza della critica, c’è da supporre che la giuria, di cui fa parte anche la sua connazionale, l’artista esiliata Shirin Neshat, in qualche modo apprezzerà.
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