El Club, Orso d’Argento a Berlino e inviato dal Cile agli Oscar come Miglior Film Straniero, ha concluso la retrospettiva che la Festa di Roma ha dedicato a un regista neanche quarantenne e già autore di cinque film tutti memorabili, tra cui Tony Manero e Post Mortem. Da sempre attento a scandagliare le dinamiche del potere con un cinema profondamente politico e di notevole complessità concettuale, Larrain stavolta ha preso di petto la Chiesa cattolica, come istituzione chiusa e autosufficiente, un “club” appunto in cui i panni sporchi si lavano in casa. E la casa del film, in una sperduta località sull’oceano Pacifico, è quella in cui vivono quattro uomini e una donna allontanati dalla Chiesa per qualche atto commesso in passato. Si tratta di crimini gravi ma che non sono stati affidati alla giustizia terrena ma a una sorta di esilio: tra questi c’è la pedofilia, ma anche la connivenza con il regime di Pinochet e persino la vendita di neonati non desiderati a genitori ricchi. Il cineasta, che sta montando un nuovo lavoro, un noir su Pablo Neruda nei due anni in cui fu ricercato dalla polizia, ieri sera ha partecipato a un affollato incontro con il pubblico condotto da Mario Sesti al Maxxi. El Club sarà in sala con Bolero il 20 novembre, Cinecittà News ha intervistato il regista.
El Club è un film misterioso e difficile da decifrare, che mantiene tutta l’ambiguità dei comportamenti dei suoi personaggi.
Preferisco non dare la chiave di lettura, altrimenti lo spettatore che ci va a fare al cinema? Ho bisogno di uno spettatore attivo. Trasmettere informazioni ambigue crea un senso di inquietudine. Anche la Chiesa funziona con questa ambiguità.
Il film parla anche di colpa e di perdono.
Sicuramente El Club è un esercizio sulla non remissione. Nella Chiesa cattolica, per essere perdonato, devi fare atto di contrizione, confessarti con un prete, ma non conosco un solo sacerdote che abbia riconosciuto i suoi errori pubblicamente, a parte Papa Francesco che ha chiesto scusa a nome della Chiesa. Però come si può perdonare chi non chiede perdono?
La Chiesa sembra convinta di poter affrontare e risolvere questi casi al suo interno, senza ricorrere alla giustizia terrena.
La Chiesa crede che i peccati vadano lavati solo davanti a Dio. Noi viceversa pensiamo che i peccati siano anche dei delitti e che vadano portati davanti a un tribunale, ad esempio nel caso della pedofilia. Il segreto della confessione nasconde un atto di vigliaccheria. La Chiesa ha due facce: di fronte al mondo esterno diffonde la parola di Cristo e il suo messaggio di amore, perdono e compassione, ma al suo interno è del tutto diversa. Cristo però non aveva questa doppiezza.
Lei è credente?
Sono cattolico, ma la mia fede dipende dal giorno, oggi no, magari domani sì.
Il personaggio del gesuita che arriva nella casa per confessare i preti ci fa pensare alla nuova Chiesa rappresentata da Papa Francesco. Cosa pensa di Bergoglio.
Papa Francesco rappresenta la nuova Chiesa, più vicina alla gente, più umile, capace di chiedere perdono, che si scontra con una Chiesa antica, a porte
chiusa, infatti la parola “conclave” vuol dire proprio chiuso a chiave. La battaglia tra queste due visioni crea un materiale molto interessante per un film. Però in comune hanno una cosa: entrambe temono i giornalisti più dell’inferno e con i media digitali e i social network sono costretti a confrontarsi con l’informazione in modo ancor più martellante.
La nuova Chiesa non sembra pronta a mettere in discussione un sistema maschile e maschilista di potere. Il Sinodo attuale è affare di soli uomini nonostante gli argomenti trattati – la famiglia, il gender – riguardino in prima persona anche le donne. E anche nel suo film la posizione della suora, che è quasi una governante della casa, richiama questo atteggiamento maschilista del cattolicesimo.
La Chiesa ha un’organizzazione maschile, vede la donna come madre, non la considera neanche come luogo di desiderio. Eppure è difficile intendere qualsiasi attività umana senza la presenza della donna. Non credo che sarà facile cambiarlo finché a decidere saranno gli alti prelati con l’anello al dito. C’è un maschilismo nascosto e serpeggiante nella Chiesa che il personaggio femminile mette in risalto.
Alfredo Castro è il suo attore feticcio, presente in tutti i suoi film. Qui il suo personaggio rappresenta uno snodo chiave della vicenda.
Il personaggio di Castro è l’unico che parla di desiderio e di celibato, che dice che non puoi reprimere il desiderio. Lui stesso si definisce come re della repressione, ma poi il corpo esplode. Questo accade a molti preti, sia omosessuali che eterosessuali. Per questo ho messo la citazione dalla Genesi all’inizio del film: “Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalla tenebre”. Dio dà all’uomo la possibilità di stare nella zona di luce. Credo che la Chiesa riuscirà a trovare pace quando capirà che il desiderio è una necessità umana, e che la sessualità non può essere ridotta solo all’aspetto procreativo, ma ha uno splendore in sé, ed parte della bellezza dell’uomo.
E invece come ha costruito il personaggio del giovane abusato che denuncia il suo carnefice?
Ho parlato con varie vittime e mi sono reso conto che una persona abusata sistematicamente per molti anni non ha più complessi e racconta in modo esplicito ciò che ha subito, senza pudore. Si ripete, si ripete e le sue parole si trasformano in un mantra. Il corpo è stato sopraffatto, la sessualità sconfitta. Mi sono reso conto che se avessi reso in immagini quello che stava dicendo, avrei sovrapposto la mia visione, invece così ognuno di noi si fa in testa le sue immagini, ogni spettatore costruisce la sua rappresentazione e il risultato è più violento e perverso.
Perché la politica è così importante per lei?
Nei miei film i personaggi non hanno consapevolezza del contesto politico in cui si muovono, ma se neghi questo, stai regalando il potere agli altri. Questa assenza di coscienza è pericolosa. Per me il cinema è politico perché qualsiasi forma di rappresentazione è un gesto politico, ma non ho un’ideologia o un messaggio da trasmettere come avveniva negli anni ’70.
Sarebbe riduttivo se El Club venisse considerato un film sulla pedofilia.
In realtà c’è un solo prete pedofilo, ma oggi siamo ossessionati dalla pedofilia. Un tempo le vittime si vergognavano, oggi sono protette e quindi più facilmente emergono questi scandali.
Il cinema latinoamericano sta vivendo un grande momento, anche a Venezia hanno trionfato un film venezuelano, Desde allà, e l’argentino El Clan di Pablo Trapero.
Stiamo vivendo un gran momento, forse perché facciamo un cinema meno compiaciuto di sé e ci relazioniamo bene con i grande cineasti del nostro passato che hanno lasciato il segno. L’idea terzomondista, di isolamento e povertà è stata usata molto bene nel nostro cinema. Siamo una regione orgogliosa della sua identità e senza complessi.
E’ vero che prima di iniziare le riprese di un film rivede insieme ai suoi collaboratori un’opera di Pasolini?
Sì, capita. Ma non ho un modello unico. In varie fasi della mia vita sono stato ossessionato da registi diversi. Da giovanissimo i tedeschi, perché frequentavo il Goethe Institut e conobbi così Wenders, Herzog e Fritz Lang; poi il cinema italiano – Pasolini e Rossellini – poi Kubrick e Cassavetes, quindi i francesi. Citare dei registi è un po’ ridicolo. Nel caso di El Club forse c’è un’influenza di Bergman e Bunuel, ma anche Pasolini per lo spazio mistico e religioso che faceva parte del suo cinema.
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