VENEZIA – Una commedia horror e una storia di vampiri (quest’anno vanno molto di moda qui alla Mostra) per Pablo Larraín. Che porta in concorso El Conde – dal 15 settembre su Netflix – a cinquant’anni dal golpe militare in Cile in cui fu spodestato e ucciso il presidente Salvador Allende.
Per il talentuoso regista cileno, alla sua quinta volta a Venezia, è un ritorno in piena regola al tema della dittatura scandagliato in vario modo nella sua filmografia in film come Tony Manero, Post Mortem, El Club, dopo la parentesi più glamour e internazionale delle biografie Jackie e Spencer (e presto arriverà la Callas con Angelina Jolie).
In un bianco e nero elegante e molto intonato alle atmosfere dark (la fotografia è di Edward Lachman), troviamo Augusto Pinochet (Jaime Vadell) che diventa il simbolo stesso del fascismo in tutte le epoche dell’età moderna, dalla rivoluzione francese all’Inghilterra di Margareth Thatcher (lei risulta essere addirittura sua mamma). Vola sulla città e affonda i canini aguzzi nelle sue vittime, come in qualsiasi film di genere. Ma noi sappiamo chi è e cosa ha fatto e l’umorismo nero di Larrain suona ancor più macabro e sconvolgente.
Ormai anziano e in declino, il tiranno vive con la famiglia in una residenza della Patagonia australe, una grande casa squallida e sinistra, dove i pavimenti sono sconnessi e la terra risale dalle profondità. Il vampiro ha duecentocinquanta anni e vorrebbe rinunciare alla vita eterna smettendo di succhiare sangue e bere frullati a base di cuore umano. Ma qualcosa lo trattiene. La moglie (Gloria Münchmeyer) ha intrecciato una relazione con il suo ambiguo maggiordomo (Alfredo Castro) anche lui vampiro. I figli e le figlie aspettano l’eredità costruita in tanti anni di potere assoluto depredando le vittime – i suoi rampolli sono vampiri anche loro, benché soltanto in senso metaforico – e una giovane e avvenente suora esorcista (Paula Luchsinger) fa la sua apparizione con il pretesto di mettere ordine nei conti e nelle proprietà, ma finisce per essere invischiata.
“Il film voleva essere un ritratto di Pinochet, mai prima raccontato al cinema o in tv, in un intreccio di farsa e horror, proprio per non creare alcuna empatia con lui. I temi che mi affascinano in questa figura sono la sua impunità e l’eternità: lui morì in libertà, ricco e mai sottoposto a processo”, spiega il regista. Che non sa prevedere come questo lavoro sarà accolto in Cile. “Credo il nostro pubblico o lo odierà o lo amerà senza vie di mezzo, nessuno resterà impassibile”, commenta Gloria Münchmeyer, Coppa Volpi a Venezia nel 1990 con La luna en el espejo di Silvio Caiozzi. “Larrain mi ha chiamato nel ruolo di Lucia Pinochet perché sono identica a lei, anni fa mi propose lo stesso ruolo anche un regista italiano, ma poi non se ne fece nulla. Nella finzione sono una vecchia che vuole diventare immortale, nella realtà sono un’attrice che, dopo essere tornata in concorso a Venezia tanti anni dopo, è pronta a uscire di scena felice e salire in cielo”.
Interviene Alfredo Castro, attore feticcio di Larrain: “Il genio di Pablo è usare il genere per costruire una farsa politica su un personaggio in cui c’è tutta la banalità del male, Pinochet arriva davvero come un vampiro nella storia del Cile e ne diventa protagonista con la sua malvagità. Il golpe, sanguinoso e rapido, avvenne l’11 settembre 1973, tra pochi giorni sono esattamente cinquant’anni ed è importante parlarne”.
“Certe persone pensano che Pinochet non vada filmato – afferma Larrain – ma io credo che il male vada ritratto come hanno fatto artisti del calibro di Lucien Freud, Francis Bacon e Francisco Goya“. Quindi un commento sulla situazione attuale del Cile: “Ci sono delle condanne, ma tanti torturatori sono ancora a piede libero e non sappiamo neppure dove sono i cadaveri di molte delle vittime. L’impunità ha spaccato in due il nostro paese”. E viene citato il caso dell’assassino del cantautore Victor Jara, un generale dell’esercito che si è suicidato prima di ricevere la notifica della condanna definitiva a venticinque anni di carcere.
Si parla del ruolo della Chiesa cattolica, evidenziato nel film attraverso il personaggio di Paula Luchsinger che dice: “Una parte della Chiesa ha difeso le vittime, un’altra parte invece ha acquisito potere grazie alla dittatura. Anche il mio personaggio è molto contraddittorio e finisce per essere affascinata dall’idea di diventare immortale”. E aggiunge: “El Conde è un film necessario dopo una dittatura che per 17 anni ha annullato e violato sistematicamente i diritti umani. Oggi c’è un ritorno dell’estrema destra e questo film mostra cosa ha fatto Pinochet, ma anche cosa può rappresentare la dittatura in qualsiasi posto del mondo, ci fa capire cosa succede quando si mettono da parte la democrazia e i diritti civili”.
“Ho lavorato con Pablo in varie pellicole – aggiunge Alfredo Castro – e l’impunità è un tema che attraversa tutto il suo cinema. Il nostro presidente dice che bisogna avere giustizia nella misura del possibile, ma io dico che occorre avere giustizia totale”.
Sull’uso del bianco e nero, Larrain spiega: “Serve a trovare una prospettiva più teatrale e creare una distanza. C’è un motivo estetico, ma è anche un modo per essere più universali”.
E’ assente il protagonista Jaime Vadell, ma di lui ci parla Gloria Münchmeyer: “Lavoriamo insieme da 50 anni. Ci conosciamo molto bene. È il miglior attore cileno della sua generazione ed è riuscito a dare al personaggio uno spessore che evita la caricatura”. Infine tocca a Larrain raccontare: “Jaime preferisce fare pochi ciak, ma non ha mai sbagliato una scena, era sempre perfetto”.
di Cristiana Paternò
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