Avvio italiano, alla Berlinale numero 51. Oggi Le fate ignoranti di Ferzan Ozpetek, domani Der Zauber der Malèna di Tornatore. Bellucci & co sono approdati al festival stremati dal tour promozionale americano e cercano di schivare le interviste, più disponibile il gruppo delle “fate” senza Margherita Buy, mamma da poco e dunque assente, ma con la shooting star Stefano Accorsi che sorride e fa confronti tra il set multietnico e affollato di Ozpetek, quello rigoroso e blindato di Moretti, quello energetico e assolutista di Muccino. “Tre film sulla crisi, che toccano nervi scoperti… in cui ho messo alla prova me stesso. Con Moretti, un vero regista-operaio che incute timore a chiunque perché dice quello che pensa, ti viene voglia di smettere di fare questo mestiere: all’ottantesimo ciak, pensi di andartene, di far togliere le tue foto dall’annuario degli attori e seguire un corso di falegnameria”. E Le fate? Un po’ d’imbarazzo all’inizio – abbiamo esordito in modo brutale, girando come prima cosa le scene del gay pride – poi sempre più a suo agio nel ruolo, per lui inedito, dell’omosessuale.
Agitato, invece, Ferzan Ozpetek. “Mi sento fragilissimo, qualsiasi cosa mi dicono, si ingigantisce nella mia testa”, confessa. Al terzo film, il primo tutto girato in Italia (ma con due personaggi turchi non secondari), ci rappresenta in concorso a Berlino. Poi esce nelle sale, il 2 marzo, distribuito da Medusa. E annuncia vendite all’estero già cospicue: Germania, Francia, Spagna, Canada, trattative con Stati Uniti e Olanda. Sentiamo come ci racconta il suo film.
Lo consideri un outing, una dichiarazione di identità gay?
Non è un film gay, è un film sui sentimenti che vanno oltre i gusti sessuali: puoi avere preferenze sessuali ma sentimentali no. Però credo che farà bene al mondo gay, perché parla di apertura.
Comunque hai messo in coda le immagini del gay pride che danno un senso politico.
Ci tenevo molto, dovevano essere dentro al film, poi però spezzavano l’atmosfera e rallentavano, allora le ho spostate alla fine. Dà anche l’idea che nella vita di queste persone succedono altre cose che non necessariamente ho raccontato.
Credi che la famiglia alternativa che racconti sia un’utopia o qualcosa di reale e magari praticabile?
Io l’ho sperimentata per dieci anni. Abitavamo tutti vicino e la domenica alle 8 la trans del piano di sotto saliva da me per cucinare. Cucinava pesante, così gli altri amici che venivano dopo portavano anche loro da mangiare. La gente si stupisce, quando apri le porte così, ma io dico che non c’è niente da temere. E poi come fai a costruire un’amicizia profonda se non apri le porte?
Chi sono le fate ignoranti?
Il nome viene da un disegno di Magritte che però non è il disegno che si vede nel film, quello l’ho fatto io qualche anno fa e Tilde Corsi mi ha convinto a usarlo. In astratto, le fate sono quelle persone che sembrano superficiali perché sono sempre allegre, leggere, ma poi nascondono sentimenti profondi e magari grandi dolori. Serra è un personaggio così: in Turchia, venti anni prima, è stata arrestata, incarcerata, picchiata, il suo ragazzo è morto e lei è scappata in Italia. È riuscita a cambiare. E a volte, per cambiare, basta salire le scale.
Credi che sia inevitabile mentire per non perdere le persone che amiamo?
Io, nei miei rapporti, ho detto sempre la verità, e spesso l’amore si è trasformato in amicizia. Ci sono coppie che si tradiscono e non lo dicono, ma lo fanno in modo leggero, senza ferirsi. È una scelta che ognuno di noi deve fare.
Hai pensato ad Almodóvar?
Almodóvar lo ammiro tantissimo, magari avessi il suo talento! Ma sono molti i registi che mi influenzano.
La prossima storia ti riporterà in Turchia?
Non lo so. Ho due progetti. Uno, Il fiore dell’Anatolia, si svolge in Turchia; l’altro è italiano, una bellissima storia d’amore a due generazioni. Mi è venuta in mente una volta che, insieme al mio amico, abbiamo accompagnato un vecchio in giro per Roma. Si era perso e non riusciva più a trovare la strada di casa. È una cosa che mi ha commosso moltissimo.
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