Orlando Bloom poliziotto nel Sudafrica di Mandela


CANNES. Due belli in apertura e chiusura del Festival. Giorni fa il seducente e ultraromantico Gatsby/Leonard DiCaprio, e ora l’affascinante e vissuto poliziotto Brian/ Orlando Bloom, in attesa domani dell’annuncio dei palmarès. L’attore inglese è il protagonista, insieme a Forest Whitaker, del crime thriller francese Zulu di Jérome Salle, presentato fuori Concorso nella selezione ufficiale.

Il film, una produzione francese e sudafricana, girata in inglese tra fine settembre e dicembre 2012, uscirà in Francia a inizio novembre. Zulu è tratto dall’omonimo libro, uscito per Gallimard 5 anni fa, del francese Caryl Férey, scrittore specializzato in romanzi polizieschi e noir che si è fatto conoscere grazie a “Haka” e “Utu”, entrambi ambientati tra i Maori e premiati.

 

E’ il Sudafrica di oggi lo scenario del film, una società dalle vistose differenze sociali, terreno fertile di una criminalità diffusa e di agguerrite gang dedite ai traffici più redditizi, a cominciare da quello della droga. Ali Sokhela (Forest Whitaker), di etnia zulù, è a capo della squadra omicidi di CapeTown e dentro porta il pesante e indelebile ricordo di essere miracolosamente sopravvissuto, insieme all’amata madre, alle atroci violenze interetniche delle milizie Inkatha (partito a favore delle aspirazioni indipendentiste del popolo Zulu) in guerra con l’African National Congress di Nelson Mandela (ai tempi clandestino).

 

Della stessa squadra omicidi fa parte il fidato Brian Epkeen (Orlando Bloom), un duro e un perdente per la vita sregolata tra alcol e pillole, la cui famiglia è stata compromessa con il regime dell’apartheid. Ali e Brian, insieme un’affiatata coppia di investigatori, si trovano ad affrontare un’indagine complessa che li catapulta nel lusso delle favolose ville delle zone ricche e nella miseria delle townships, le sterminate baraccopoli dei poverissimi ghetti neri.

Motore della storia il ritrovamento, nei giardini botanici di CapeTown, del corpo mutilato di una giovane donna bianca, figlia di un ex campione di rugby. A peggiorare la situazione, un secondo cadavere di un’altra ragazza bianca, che porta sul corpo i sanguinosi segni di rituali zulù. Due omicidi che portano alla scoperta di una terribile nuova droga che provoca atti di cannibalismo.

Il regista, prima di girare il film ha trascorso alcune settimane in Sudafrica per ambientarsi e coglierne le atmosfere, e questa fase di studio lo ha convinto ad essere il più fedele possibile al libro. “Quello che voluto soprattutto privilegiare è stata l’idea del perdono che attraversa l’intero film. Come ha detto Desmond Tuto: “Non vi è futuro senza perdono”. Il regista evita di percorre la strada di un particolare sottogenere, ‘i film di vendetta’ come lui li chiama. “Mi è piaciuta l’idea di costruire un thriller che va contro questa filosofia e il Sudafrica è lo scenario perfetto per parlare di perdono. Alla fine dell’apartheid, il governo creò la Commissione per la verità e la riconciliazione al fine di evitare la spirale di vendetta e consentire ai persecutori di chiedere perdono alle loro vittime. Essi beneficiarono di un’amnistia, essendo perdonati. Questa forma di riconciliazione pacifica è stata da allora copiata in altri paesi dell’Africa e dell’America latina”.

L’impressione che si ha vedendo il film è di una nazione, il Sudafrica, dove l’apartheid sociale ha soppiantato quello razziale. “Quando tu parli con i sudafricani, rimani colpito dalla visione molto pessimistica che hanno del loro paese – replica il regista – Spesso dico loro: ‘Guardate intorno a voi, la situazione ha dell’incredibile. Dopo decenni di un regime atroce, ne siete usciti senza un bagno di sangue. E anche se non è sempre facile, voi riuscite a vivere insieme. Questo da solo è un successo. Poiché si tratta di un’evoluzione e non di una rivoluzione, l’impressione è però che le cose cambino lentamente. Troppo lentamente per qualcuno. Ma da un trauma come l’apartheid non si può guarire con una sola generazione. Queste cose richiedono tempo, ma ciò non sempre è facile da accettare”.

Prima che il regista facesse parte del progetto, un altro era l’attore previsto per il ruolo poi ricoperto da Whitaker. Scelta per così dire obbligata dato il suo straordinario talento e l’improvviso forfait dell’interprete in precedenza previsto.

Per il personaggio del poliziotto bianco vi era una lista di tre, quattro candidati. Ma è stato il regista a essere il più convinto di tutti che quella di Bloom era la scelta giusta. “Tre sono state le ragioni obiettive che mi hanno spinto. La era che il carattere di Brian potesse diventare facilmente una caricatura. Un poliziotto finito, in conflitto con la sua e , che da tempo non riesce a parlare al figlio adolescente, che beve e si riempie di pillole, è un bel cliché. Ho pensato che Orlando Bloom, che nella vita reale comunica vibrazioni molto positive, avrebbe potuto sorprenderci tutti, e dare un altro aspetto al personaggio di Brian, sfuggendo a quel cliché. Inoltre, avendo ricercato le sue origini, ero venuto a sapere dei suoi legami familiari con il Sudafrica. Il padre Harry, che non era il padre biologico, era un famoso giornalista e scrittore sudafricano e un militante contro l’apartheid. Harry Bloom dovette lasciare il paese e così avvenne che incontrò in Inghilterra la madre di Orlando. Ho pensato che questa era una strada interessante da esplorare. E infine ci siamo sentiti subito sulla stessa lunghezza d’onda e siccome Orlando è un uomo intelligente, tutto quello che rimaneva era lavorare insieme per modellare il personaggio di Brian”.

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