Olivier Assayas è protagonista alla Festa del Cinema di Roma, con un incontro ravvicinato con il pubblico dove il regista parigino parla della Nouvelle Vague e dell’esperienza come critico nei Cahiers du Cinéma.
“L’arte bisogna impararla con la critica – dice – però poi mi sono dovuto distaccare. Se oggi pensassi a quello che diranno i critici di ogni mio film, mi porterebbe totalmente fuori. Devo rispettare la mia ispirazione, dunque non leggo le critiche, penso ai miei film come spettatore, nemmeno come regista. Inoltre bisogna definire cosa si intende per ‘critica’. Per me c’è differenza tra il critico che assegna stelline a un film per dare consigli al pubblico, come se si trattasse di TripAdvisor e se i film fossero alberghi o ristoranti, e il parlare di cinema instaurando un dialogo, come fanno i saggisti. Ecco, la saggistica mi ha influenzato. E’ una lettura utile e importante, e chi scrive saggi sul cinema aiuta i registi. E naturalmente, c’è Internet. C’è stata una migrazione dalla stampa al virtuale, si scrive molto più di cinema in rete oggi di ieri, quando io facevo il critico era un’altra vita. L’ultimo testo che ho scritto per i Cahiers risale all’85, quando stavo facendo sopralluoghi per il mio primo film. Era pieno di stampa cinefila: i Cahiers, ‘Positiv’, ‘Jeune Cinéma’, che rappresentavano i giovani, e poi la critica seria e influente su ‘Le Monde’, ‘Liberation’ e ‘Télérama’, giornali culturali dove il cinema aveva uno spazio. Parliamo di un pugno di riviste cinefile con una decina di collaboratori. Ora è chiaro che questi giornali hanno perso di importanza, c’è una scrittura accessibile e gratuita su Internet e anche dal punto di vista della fruizione sono tutti più facilitati, tra DVD e streaming, mentre quando ero ragazzo io, se abitavi in campagna dovevi affidarti a quello che passava la tv, oppure si era dipendenti dalle cinemateche, la cultura cinematografica era più univoca perché i luoghi di incontro del cinema erano quelli. Poi, la cultura cinematografica di tutto il mondo è diventata immediatamente accessibile a tutti, ognuno poteva costruire il suo personalissimo rapporto con il cinema, rivalutare Lucio Fulci o i film horror thailandesi ed esaltarli come la massima forma d’arte cinematografica possibile. E lo stesso vale per i ragazzi. Però non sono pessimista come molti miei coetanei. E’ vero, magari i giovani non hanno visto l’alba di Murnau, ma hanno visto molte altre cose cheio non avrei potuto vedere, perché hanno maggiori possibilità”.
Per quanto riguarda la Nouvelle Vague dice “non ha inventato, ma ha teorizzato e propagato la libertà artistica dei registi, definendo la possibilità per un cineasta di essere libero quanto uno scrittore, aggirando l’industria, facendo film con meno soldi ma più respiro e reinventando l’arte cinematografica. Questo ha lasciato un’eredità a livello internazionale, e tutti i registi di tutto il mondo si sono sentiti tenuti a prendere una posizione, e a fare un cinema diverso. Cosa rimane oggi della nouvelle vague? Tutto, direi. Io non farei film o farei film molto diversi se la nouvelle vague non ci fosse stata”.
E poi, in stretta soluzione di continuità, si passa ad argomenti caldi: la serialità, la sala, le piattaforme e soprattutto la polemica che infervora in questi giorni circa il rapporto tra cinema d’autore e cinecomic, che ha visto schierarsi contro lo strapotere Marvel/Disney illustri nomi come Martin Scorsese, Francis Ford Coppola, Pedro Almodovar che li ha definiti “film senza genere” e Ken Loach, che ha paragonato i cinecomic a degli hamburger industriali. Assayas sul tema è lucidissimo e chiarissimo: “Non ne faccio una questione ideologica – dice – ma piuttosto artistica. Vorrei specificare che sono sempre stato un amante del cinema popolare americano e soprattutto un lettore di fumetti Marvel. Purtroppo però penso che il cinema americano non sia mai stato stupido come oggi. E come lettore di fumetti credo che tutto quello che amavo in quei personaggi oggi si sia perso. C’è meno violenza, meno sesso, meno vita. Ho visto un po’ di questi film, non mi piacciono. Sono poveri artisticamente e visivamente, si somigliano tutti e ho molta difficoltà a riconoscere Thor e Capitan America, e a identificarmi in loro. Non riesco a prenderli sul serio, quando invece vent’anni fa guardavo film di fantascienza che mi sembravano sofisticati, che inventavano un loro linguaggio e presentavano soluzioni visive interessanti. Oggi non vedo un solo regista che si distingua dall’altro, su questo genere. E l’invasione di questi film con una potenza economica enorme alle spalle, la visione industriale del cinema per cui tutto debba essere il prequel, il sequel, l’universo condiviso o lo spin-off di qualcos’altro, tutto incentrato sul marketing, non mi piace. C’è qualcosa di profondamente sbagliato e ha a che vedere con la manipolazione di massa. Ripeto che sono cresciuto con quei personaggi e con il cinema pop americano, ma oggi credo che qualcosa di importante si sia perso”.
Sul rapporto tra i giovani e la sala: “Ai ragazzi piace ancora l’esperienza collettiva, dunque quando escono con gli amici la forma di divertimento più accessibile e meno costosa è il cinema. Anche se chiaramente prediligono i blockbuster e il cinema d’autore un po’ più ambizioso o intellettuale sta perdendo terreno. Anche io, quando vado a presentare i miei film, vedo sempre più spesso un pubblico di anziani, ed è un po’ triste che si venga a perdere una certa continuità con quello che abbiamo fatto in passato. Per fortuna non sempre è così”. Sulle serie tv: “Non ne guardo tante, quindi tutto quello che dirò sarà limitato dalla mia relativa ignoranza in materia. Chiaramente capisco i vantaggi di poter lavorare su un formato più lungo, ed è un vantaggio, che ho usato anche io, ad esempio, per Carlos. Il formato televisivo mi ha permesso di farne un film di cinque ore mentre quando ho fatto la versione per la sala, che era tagliata, non ne ero rimasto soddisfatto. E poi c’è la dipendenza, che è un altro motivo per cui non guardo le serie. Gli amici mi dicono ‘ho visto questo, ho visto quello’, e io dico ‘sì, ok…ma quando dormi? Quando vivi? Quando leggi? Quando vai a vedere una mostra in un museo? Non generalizzo, ci sono artisti bravissimi che lavorano sulle serie e fanno cose interessantissime, ma io non ho molta familiarità con quel mondo lì”.
Invece, Assayas la familiarità ce l’ha col cinema asiatico, di cui è un esperto e per cui riserviamo un’ultima domanda: “Negli anni ottanta e novanta, quando lo scoprivamo, il cinema di Hong Kong stava vivendo una rivoluzione, aveva un ‘estetica interessantissima, ricordo i film di Kung Fu e quelli fantastici, era straordinario ed erano completamente diversi da quello che si faceva a Hollywood o in Europa. Era come se loro stessi stessero vivendo una loro ‘nouvelle vague’. Pensiamo a Wong Kar-wai. E poi Taiwan. Nell’84 c’era ancora la leggge marziale, era un paese in guerra. Vivevano ancora all’ombra della guerra fredda e gradualmente abbiamo visto un movimento di liberazione intellettuale e artistica, che ha cominciato con la letteratura, si è prolungato nel cinema, e ha cominciato a dire quello che prima non si poteva dire. Tutto era controllato dalla censura. In Cina ancora oggi è tutto sotto censura. Più libertà invece in Corea, dove c’è un buon sistema cinema che favorisce i registi talentuosi. Ad ogni modo penso che tra il cinema Occidentale e quello Orientale ci sia stata una grande ondata unificatrice”.
Parola al premio Oscar Ron Howard, regista di Pavarotti, documentario biografico in Selezione Ufficiale alla Festa di Roma 2019, stasera in prima serata su Rai Uno: materiale familiare inedito, interviste originali, tra cui a Nicoletta Mantovani, alle tre figlie e alla prima moglie, e a Bono Vox, un racconto franco e celebrativo, intimo e pubblico
Bilancio positivo per il festival dedicato ai ragazzi, che ha registrato un incremento del 29% alle biglietterie, 6000 biglietti in più rispetto al 2018. "Nel tempo siamo riusciti a costruire un rapporto diretto e autentico con tutto il pubblico, partendo dalle scuole, fino ad arrivare agli accreditati e alla critica". Così dichiarano i direttori Fabia Bettini e Gianluca Giannelli
Il premio è stato consegnato ai due registi belgi durante la 17ma edizione di Alice nella Città da Angela Prudenzi, Francesca Rettondini e Cristina Scognamillo
CECCHI GORI - Una Famiglia Italiana: dopo la mostra fotografica, la Festa ospita il documentario, per la regia a quattro mani di Simone Isola e Marco Spagnoli, prodotto da Giuseppe Lepore per Bielle Re, che ha curato la realizzazione dell’intero progetto dedicato alla dinastia che ha fatto grande parte del cinema italiano