Nuri Bilge Ceylan: “L’inverno dell’umanità”

Autore già di culto, ora consacrato con la Palma d’oro per Il regno d'inverno Winter Sleep, in uscita il 9 ottobre con Parthénos e Lucky Red, il regista turco racconta la genesi del suo lavoro


Autore già di culto, ora consacrato con la Palma d’oro per Il regno d’inverno Winter Sleep, in uscita il 9 ottobre con Parthénos e Lucky Red, il turco Nuri Bilge Ceylan richiede allo spettatore un impegno che viene ricompensato dalla straordinaria qualità della sua scrittura. Una scrittura che pesca a piene mani nella grande letteratura occidentale, da Shakespeare a Cechov. In 3 ore e 16’ – una durata ancora superiore rispetto al precedente C’era una volta in Anatolia – Ceylan esprime la sua visione dei rapporti umani e familiari e rende omaggio alla tradizione teatrale con un dramma da camera (scritto insieme a sua moglie, la sceneggiatrice Ebru Ceylan), che si svolge prevalentemente in interni, in un’atmosfera gelida non solo climaticamente. Protagonista della vicenda è Aydin, un grande attore che si è ritirato dalle scene e ora gestisce un piccolo hotel in Cappadocia con la giovane e infelice moglie Nihal e la sorella Necla, amareggiata dal recente divorzio. L’uomo nutre la sua immensa vanità scrivendo commenti per un giornale locale e intanto accarezza, forse velleitariamente, il progetto di una storia del teatro turco. Benestante e grande conversatore, è il classico narciso che ama il suono della sua voce. Ma la sua amabilità è tutta di facciata come dimostra la reazione a un incidente apparentemente futile: il figlio dei suoi affittuari, gente molto povera e sottomessa, tira un sasso contro il finestrino del suo fuoristrada. L’attore principale, Aluk Bilginer, scherza sulla sceneggiatura, “spessa e pesante come un elenco del telefono, tanto che abbiamo girato 300 ore ridotte poi a poco più di tre al montaggio”. E aggiunge: “Lavoravamo come se fossimo a teatro, il regista ci filmava senza interruzioni”.

Rispetto ai suoi film precedenti ‘Il regno d’inverno Winter Sleep’ è molto più parlato, il linguaggio verbale è preponderante rispetto alle atmosfere e ai paesaggi. Come mai questo slittamento?

Amo molto il teatro, così in questo caso non solo ho utilizzato molti dialoghi, ma ho scritto dialoghi piuttosto letterari. A teatro e nella letteratura un linguaggio di questo tipo è molto usato, ma al cinema è in un certo senso pericoloso e può non funzionare. Così nei miei primi film facevo attenzione a rendere le cose naturali, cercavo il realismo, poi mi sono reso conto che di realismo ce n’è fin troppo cinema di oggi. Quindi ho deciso di vedere se Shakespeare e Dostoevskij potevano funzionare al cinema. Determinante però è stato l’apporto degli attori per dare verità a questo testo.

La sua fonte d’ispirazione principale è ancora una volta Cechov.
E’ vero, in particolare tre racconti che in parte ispirano direttamente alcuni dialoghi. Sembrano storie scritte per la Turchia. Non posso dire di aver fatto un film su un tema specifico. Amo fare film ambigui che lascino alla fine sentimenti contrastanti. A volte mi chiedo come riassumere i miei film in una parola o una frase: è impossibile.

Anche se il film non è apertamente politico, contiene echi della situazione attuale della Turchia, in particolare nel rapporto tra le classi sociali e nel rapporto uomo-donna.
In realtà nel mio film non faccio allusione alla situazione turca attuale. D’altronde, penso che un regista non debba evocare l’attualità del proprio paese. Tutto ciò che accade, in ogni parte del mondo, lo si può spiegare riflettendo sulla natura umana che è sempre la stessa ovunque. Credo che il dovere di un cineasta sia diverso da quello di un giornalista. Certo, può fare il lavoro del giornalista, ma credo che un regista debba avere uno sguardo più ampio e debba  rivolgersi all’anima dello spettatore, cercare di instillare qualche sentimento. Quello che mi spinge a fare film è cercare di capire l’animo umano.

Come lavora con sua moglie Ebru Ceylan?

Abbiamo scritto tre film insieme. C’è un periodo di scrittura intenso in cui discutiamo e ci scontriamo, ma la nostra è una collaborazione fruttuosa. Abbiamo la stessa visione sulla gente e sulla vita.

Perché ha scelto proprio la Cappadocia, con le sue incredibili formazioni calcaree e i villaggi rupestri, una regione famosa in tutto il mondo per la sua unicità?

All’inizio non volevo filmare in Cappadocia, ma dopo alcune ricerche ho capito che non avevo altra scelta. Volevo un luogo semplice, ma anche turistico, un hotel isolato in inverno. La Cappadocia era l’unico posto in cui si potevano trovare turisti anche in questa stagione. Avevo un po’ paura a girare lì perché è una regione di grande bellezza ma anche molto nota, per questo non l’ho mostrata troppo. Ho filmato le prime nevi per simboleggiare il cambiamento dell’atmosfera, perché la neve si riflette sulla psicologia. Faceva freddo, a volte -10°, si gelava davvero.                  

La sua è una visione senza speranza dell’essere umano, lei sembra voler mostrare l’inverno dell’umanità.
Una speranza c’è, nei miei personaggi come nella vita. Alcuni registi amano mettere una nota di ottimismo nel finale dei loro film, io no. Sono abbastanza realista e a volte bisogna saper essere pessimisti. Anzi, trovavo che il finale di Winter Sleep fosse un po’ troppo positivo e al montaggio ho reso il discorso di Aydin un po’ più confuso.

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06 Ottobre 2014

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