Nope “è” un gigante disco quasi piatto con un bulbo oculare, che potrebbe altrettanto essere un cavo orale. Nope “è” un’affascinante visione mastodontica che libra nel cielo sopra il deserto califoniano, che si fa camaleonte non nel cromatismo, perché tendenzialmente di un quasi perenne bianco virginale, quanto nel trasformismo plastico, passa dall’essere un tubolare e filamentoso “utero” a una parata di vele come gonfiate dal vento. Nope, però, “è” certamente affamato e non ama essere “guardato negli occhi”.
Jordan Peele firma la sua opera terza – la prima è stata Scappa – Get Out (2017), premio Oscar per la Miglior Sceneggiatura Originale; poi Noi (Us, 2019): Nope viene classificato come horror ma porta con sé alcuni stilemi del western, il soggetto del riscatto “nero”, e il discorso del gioco di potere tra Natura e uomo. È anche un discorso sullo sguardo del cinema, sulla visione, sul campo e sul fuori campo.
Nell’essenza, la trama racconta di OJ Haywood (Daniel Kaluuya) e Emerald Haywood (Keke Palmer), fratello e sorella neri, che gestiscono il ranch di famiglia, con la peculiarità di mettere a disposizione i loro cavalli per il mondo dello spettacolo, almeno finché il loro padre non rimane vittima di uno strano evento generatosi dal cielo. I due interpreti principali restituiscono una fratellanza altamente realistica: tra loro una confidenza famigliare, una gestualità e un’intesa di sguardi propri solo di persone che hanno comune patrimonio genetico, seppur le due personalità – sullo schermo – si disegnino delineatamente differenti, per un giusto gioco d’equilibri, con lei volitiva e eccentrica e lui più riflessivo, al limite della silenziosa timidezza, ma pragmaticamente dinamico.
Complici della scena altre due figure chiave, anzi tre: Ricky “Jupe” Park (Steven Yeun), ex bambino prodigio del piccolo schermo, diventato proprietario di un villaggio di divertimenti, la cui essenza ludica si capovolge; ma soprattutto Angel (Brandon Perea), commesso di elettronica che dal vendere ai fratelli telecamere da piazzare nella propria abitazione per cercare di riprendere il fenomeno e sbarcare così il lunario “da Oprah” (con palese riferimento alla regina della tv americana, Oprah Winfrey) si ritrova assistente alla regia dell’impavido dop Holst (Michael Wincott), fenomeno della ripresa, pronto a tutto pur di immortalare questo orrore cosmico o – come lo definisce OJ Haywood – “animale territoriale” dalle aliene e inquietanti finalità.
Un compagno di squadra eccellente di Peele per il film è stato certamente il direttore della fotografia, Hoyte van Hoytema: Nope è stato girato con tecnologia Imax, per una resa della visione spesso mozzafiato, una dominante eccellente del film, originale nella trama, ma non costantemente all’altezza di un’estetica che ammalia, contro uno storytelling a tasso adrenalinico non sempre apicale, come supposto.
Nope è una storia fuori dal mondo, ma dentro un mondo decisamente reale, calata nella Storia contemporanea, infatti il film, in uscita nelle sale italiane l’11 agosto con Universal Pictures, al box office statunitense (3.785 sale) ha già sbancato, nel primo fine settimana, con un debutto da 44 milioni di USD, risultato che conferma il consenso popolare per il cinema di genere a sfondo civile e sociale.
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