Kathy, Tommy e Ruth sono dei cloni. Dei costrutti genetici creati in laboratorio al solo scopo di curare persone malate, donando gradualmente i loro organi, fino all’inesorabile completamento del ciclo. Naturale che agli appassionati di fantascienza vengano in mente i replicanti di Blade Runner e l’indimenticabile monologo finale di Rutger Hauer – “Ho visto cose che voi umani…” – ma la sci-fi è in verità molto lontana da Non lasciarmi, il film tratto dal romanzo dello scrittore nippo-britannico Kazuo Ishiguro che uscirà il 25 marzo con Fox.
Si tratta invece di un dramma di alto impatto emotivo, interpretato da Carey Mulligan, Keira Knightley e Andrew “Spider-Man” Garfield – ma tra i volti noti si riconosce anche quello di Charlotte Rampling – sui temi dell’amore, della perdita, della dignità, basato su una domanda che più universale non si può: “Cos’è che ci rende umani?”.
Gli elementi fantascientifici e l’ambientazione in un presente (non troppo) alternativo sono solo il veicolo per rappresentare la fragilità dell’umana condizione, l’ineluttabilità di un fato – la morte – che tutti condividiamo. Solo che per i tre ragazzi protagonisti del libro e del film, tutto è più condensato, più breve, e soprattutto programmato dal principio. Tutti sappiamo che moriremo. Loro sanno anche come e a che età. E con questa consapevolezza crescono nel collegio di Hailsham in Gran Bretagna, un luogo apparentemente idilliaco, sviluppando un legame che durerà per tutta la vita: Ruth e Kathy stringono una forte amicizia, mentre Tommy, pur nutrendo grande simpatia per Kathy, si fidanza con Ruth. A sedici anni, completati gli studi, i tre ragazzi lasciano Hailsham per andare in un complesso di cottage a terminare la loro educazione per diventare prima “assistenti” di coloro che devono “completare” – il termine ‘morte’ è lontano dal loro vocabolario – e infine “donatori”. Li tradiscono però i più umani dei sentimenti: l’amore e la speranza. Continuano a studiare e confidare in un futuro diverso, che permetta loro di trovare un lavoro normale, il vero amore, magari un rinvio delle donazioni. Ma l’atmosfera non è più quella spensierata dell’infanzia, e i rapporti fra di loro iniziano a logorarsi…
A dirigere, con grande stile e il supporto della splendida fotografia di Adam Kimmel, c’è Mark Romanek, costruitosi la carriera a suon di videoclip e già autore di Static (1985) e One Hour Photo (2002). “Come mi è accaduto una volta arrivato alla fine del libro – dice il regista – ho pianto quando ho letto la sceneggiatura. La cosa che mi emoziona è che non c’è una sola scena del film che somigli a qualcosa di già visto. La natura della storia rende ogni interazione umana, al di là di un’apparenza familiare, alquanto strana, piena di tensione e pathos. I temi fantascientifici, i concetti di etica e moralità faranno certamente discutere, ma per me il punto centrale è che questa è, prima di tutto e soprattutto, una storia d’amore, fortemente acuita da una terribile verità incombente e dalla consapevolezza di una vita umana condensata in modo artificiale”.
Ma in verità, anche solo a livello di puro gusto citazionista, qualcosa di già visto c’è: il personaggio di Ruth ama i cavalli, e a un certo punto la telecamera indugia proprio su un piccolo modellino di quadrupede equino, che tanto ricorda l’unicorno di carta trovato sulla scrivania da Rick Deckard in Blade Runner. E anche la durata del rinvio che i protagonisti cercano di ottenere, quattro anni che per un uomo normale sono una sciocchezza e per un clone un’eternità, erano esattamente il periodo corrispondente al ciclo di vita dei replicanti nel classico di Ridley Scott.
Non sveleremo il finale, per ovvie ragioni, ma un simbolo, posto nella parte conclusiva del film, esemplifica il senso di tutta la storia: due pezzi di stracci bianchi, attaccati ad un filo spinato, lasciati alla mercé del vento. “E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia…”.
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