CANNES – 1815, notte, mare in burrasca, un’imbarcazione tra le fiamme, una fanciulla va a fondo, un uomo le salva la vita. Lui è Edmond Dantès, interpretato da Pierre Niney ne Le comte de Monte-Cristo di Matthieu Delaporte e Alexandre De La Patellière.
La quiete dopo la tempesta, il mattino seguente, e lo sbarco: Dantès, 22 anni, viene incoronanto capitano dall’armatore, non senza stupore dell’uomo, che torna a casa, dall’amato padre, dall’amata Mercedes, “da capitano” appunto. Lì, tra le mura domestiche, c’è anche il cugino Fernand de Morcef (Bastien Boillon), mortificato, frustrato, all’annuncio del loro matrimonio.
Dantès, convocato dalle autorità, viene interrogato su una presunta lettera a firma di Napoleone che sarebbe stata rintracciata tra le pagine della sua Bibbia, là sulla barca della tragedia notturna: Edmond disconosce la missiva, ma giocando sul sospetto che possa essere un traditore viene rinchiuso in carcere, nello château d’If, per un crimine che non ha commesso.
Dantès si trasforma e si consuma, sembra un Cristo sofferente tra le altissime mura di quella cella solitaria, dove sogna la sua compagna e sbatte la testa alle pareti per la disperazione quando… dopo quattro anni di quell’isolamento, un rumore, sempre più deciso, e poi una porzione di muro che si fende, gli permette di scoprire un’altra esistenza umana, un’ irsuta e diffidente creatura che – dapprima – si presenta semplicemente come “un prigioniero”: è Abbé Faria, Pierfrancesco Favino.
Niney, parlando proprio dell’attore italiano, compagno di scene a due, in questa sorta di buca scura che era la loro prigione, riconosce a Favino “un carisma impressionante, per un personaggio che incarna una figura paterna capace di spronarti a una follia. Sono stato impressionato dall’attore e dalla messa in scena del personaggio. Immediatamente abbiamo avuto complicità nel costruire la situazione ed è stato davvero un onore condividerla con lui”.
E, sempre su Favino, un commento di Delaporte, che dichiara subito: “lo volevamo per questa parte! È un grande attore internazionale. Ha saputo creare e godere della complicità con Pierre, anche perché ha trascorso molto tempo in uno spazio angusto, piccolo, era difficile, ma lui è aperto a ascoltare e mettere in atto”.
È proprio Faria che, superata la diffidenza, stringe con Edmond un rapporto paterno appunto, si offre di insegnargli le lingue, la matematica, la filosofia, e – in questa generosità – s’innesta anche la fiducia, quando gli racconta di un tesoro che risalirebbe addirittura a 700 anni prima, che lui ha certezza di dove sia nascosto”.
Trascorrono ancora dieci anni a château d’If e dopo quattordici di detenzione Dantès riesce a fuggire, “complice” Abbé che all’ultimo afflato di vita lo ingaggia: “trova il tesoro a Montecristo”.
Gettato in mare dentro un sacco di iuta, scambiato per il cadavere di Faria, Edmond riesce a sopravvivere e raggiungere la sua casa, un luogo fantasma: apprende che l’amato padre sia mancato e l’amata Mercedes viva a Parigi, con il cugino Fernand. Edmond – per cui tutto era cominciato su una barca in mezzo al mare – riprende la via dell’acqua alla volta di quell’isola a ovest dell’arcipelago toscano, Montecristo appunto, e da qui orchestra la sua vendetta.
Un anno dopo, a Marsiglia, comincia la coreografia delle molteplici identità che lui assume, tra cui quella del Conte di Montecristo, con cui seduce coloro che in passato lo hanno tradito, seppur – naturalmente – tutto ciò abbia un prezzo: tra gloriose ascese e precipitose discese, ecco l’affresco della storia di Edmond Dantès, il Conte di Montecristo, naturalmente dal personaggio delle pagine letterarie di Alexandre Dumas, seppur – come spiega Delaporte: “noi non abbiamo voluto riscrivere il romanzo ma smarcarci dalle versioni precedenti, per fare un film il più personale possibile. È un personaggio che incarna la sua generazione, ha una prospettiva, e per lo spettatore è interessante la sua vendetta. Ci sono la redenzione dell’amore e il senso dell’abbandono”. Commento a cui De La Patellière aggiunge che “il desiderio era l’idea di un viaggio, sognando la fluidità della gamma dei colori: la tecnologia ci ha permesso libertà creativa, giocando con l’importanza delle cromìe, saturando i blu – del mare e del cielo. Poi, abbiamo trovato attori che hanno portato una grande umanità, fondendo la tragedia e l’intimità individuale di ciascuno”, un gioco di dettagli a cui Niney aggiunge che “lo sguardo di Dantès è quello che deve restare allo spettatore, al di là del trucco – che qui è stato un lavoro artistico molto sofisticato, per dare empatia al personaggio”.
Per il protagonista francese, questo classico della letteratura, “è un dono per un attore: passare dall’innocenza al tradimento, nella sofferenza fisica e mentale, recitando con la gioia e con il diavolo, tra la giustizia e la mostruosità. È il film di una vita per la filmografia di un artista. È un piacere per un attore poter usare toni differenti: la mia formazione è teatrale, per cui mi è naturale giocare con i generi; mi domando come raccontare un’emozione, un’intenzione, e Montecristo permette di dare uno stile al personaggio. La figura letteraria mi è servita per basare il personaggio ma questa è una versione noir, che ha preso a riferimento Batman, un giustiziere”.
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