Mohsen Makhmalbaf: il cinema delle ginocchia

"Se non posso stare in piedi non posso fare un film”, dice il regista e attivista politico iraniano durante la sua masterclass al Torino Film Festival


Mohsen Makhmalbaf è vissuto in povertà nell’infanzia, si è poi unito ai guerriglieri urbani da giovane ed è finito dietro le sbarre. E’ stato una tipica aggressiva figura negli anni della post-rivoluzione, e più tardi è diventato un delicato artista. Il regista, che ha completato il suo quattordicesimo lungometraggio e girato recentemente il quindicesimo, tiene oggi una masterclass curata da Fedra Fateh e Vahid Rastgou al Torino Film Festival.

Partendo dal suo lavoro e approfondendo anche il suo ruolo di educatore, si approda al concetto fondamentale per il regista secondo il quale se il cinema non è in grado di cambiare la società, allora è inutile. Tra i suoi tanti lavori capaci d’ispirare idee e azioni, si è scelto di proporre in programma The Afghan Alphabet (2002) per mostrare cosa è in grado di fare il cinema: girato con una piccola camera digitale, il film ha spinto il governo iraniano a consentire ai bambini afgani di frequentare le scuole, influenzando così la vita di centinaia di migliaia di persone. In programma anche Hello Cinema, un’altra forma di riflessione sul potere della settima arte. I film sono disponibili su MyMovies.

“Si può andare a scuola o all’università o fare pratica – dice il regista – Se ci sono alcuni dei vostri maestri o amici che girano film, oppure lavorare da assistenti alla regia o addirittura iniziare a girare film senza pensare alla tecnica, d’altro canto i fratelli Lumière non conoscevano la tecnica e hanno semplicemente iniziato a fare cinema. Oppure si possono leggere libri. Mia nonna era molto religiosa e mi diceva che se fossi andato al cinema sarei finito all’inferno, quindi da ragazzo non andavo al cinema. Sono diventato invece un attivista politico e a 17 anni sono finito in prigione, per cause politiche. Fino a 22 anni, poco prima della rivoluzione, non ho mai visto un film. Quando ho iniziato ero puro, non avevo alcuna immagine di cinema in testa, non ero andato all’università. Sono stato del tutto autodidatta. Ho raccolto dei libri in prestito da amici o biblioteche e ho iniziato a leggerli. Ogni cosa che apprendevo la appuntavo in un quaderno, dividendoli per temi: recitazione, sceneggiatura, eccetera. Erano 400 libri e quando ho finito avevo i miei quaderni, ho rielaborato, rivisto e categorizzato tutto, c’erano sempre informazioni succinte e avevo circa 200 regole che potevo usare per fare film, e con questo libricino nel taschino ho iniziato a fare cinema. Oggi è più facile imparare, si può lavorare con strumenti più semplici. Si possono girare film con il telefonino e imparare lo stile e la tecnica con Internet. In un seminario di 3 mesi si può imparare un’infinità di cose. Ma come tutte le lingue il cinema non offre un concetto unico da offrire allo spettatore. Ci vuole la sua capacità. Dovete basarvi sulla filosofia, sulla storia, sull’economia, e poi unire la tecnica, allora i vostri film saranno importanti”.

Racconta poi della sua specifica esperienza di insegnante: “il governo non permetteva di avere una scuola ufficiale, quindi la scuola era casa mia. I miei film erano considerati un problema, pensavano che se avessi insegnato decine di persone come me avrebbero creato gli stessi problema. Ma aprii comunque la scuola e alcune di queste materie erano legate al cinema, fotografia, recitazione, regia eccetera. Ma c’erano anche materie come economia, filosofia, sociologia, psicologia e gestione. Queste materie ci avrebbero fornito una conoscenza, un’osservazione e un punto di vista. Credo che il regista abbia bisogno soprattutto della sicurezza in sé stesso. Inizialmente nel proprio corpo, c’è chi fa il cinema col cuore, chi col cervello. Io lo faccio con le gambe, i piedi e le ginocchia. Se non sono in grado di alzarmi e stare in piedi per ore non posso fidarmi di me stesso per fare un film. Quindi insegnavamo anche a pedalare e ad andare in bicicletta. Non era importante andare in bici ma la consapevolezza di poterci andare, oppure di conoscere la città. Il cinema non è solo una questione di testa, serve la mente ma anche le mani, il corpo e l’energia. Bisogna svegliarsi presto al mattino, si va a dormire tardi. Se non hai l’energia necessaria il cinema non ti darà l’occasione di un secondo film. E poi ci vogliono la tolleranza e l’etica nei confronti degli altri. Perché bisogna gestire una squadra, oltre a saper gestire bene la fotografia. La ragione per cui ho insegnato al modo mio è che ho capito che era necessaria un’istruzione diversa, anche per la mia famiglia. A mia figlia a scuola inculcavano nozioni di religione e politica che non erano importanti. Io ho insegnato alla mia famiglia cose teoriche e pratiche, e ho permesso loro di acquisire esperienza. Dopo la famiglia, sono passato ad altri, che mi seguono via Zoom in 200 ore, divise in varie materie. Bisogna conoscere l’umanità per costruire i personaggi, e perché il tuo pubblico è composto da esseri umani”.

Anche le figlie di Makhmalbaf sono cineaste: “Non ci sono solo gli uomini grassi e vecchi come Hitchcock e Fellini a saper fare cinema – dice il maestro – la bravura non è questione di età, genere o corpo. Molti tabù sono stati infranti anche grazie alla tecnologia e al digitale. Tutti possono fare un film con il cellulare, e se hanno talento ci possono riuscire. Però è anche vero che proprio perché tutti possono farlo, per dire qualcosa di importante ci vuole ancora più talento o desiderio profondo. Non si può fare solo per lavoro o per diventare famosi, io consiglio di farlo per cambiare il mondo. I panettieri ci fanno mangiare, i dottori si occupano della nostra salute, i genitori ci amano. Cosa gli offriamo in cambio? Questo. Cambiare il mondo attraverso i suoi strumenti”. 

 

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26 Novembre 2020

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